La questione delle targhe automobilistiche e dei documenti d’identità che il Kosovo solleva periodicamente per imporre la sua sovranità su tutte le comunità che vivono nei territori dell’ex regione jugoslava è un evidente pretesto che nasconde dell’altro.

I confini del Kosovo sono riconosciuti internazionalmente solo da un certo numero di Stati, tra cui l’Italia, ma non tutti gli Stati dell’Ue (anche l’Onu non considera il Kosovo uno Stato membro). Dalla guerra del Kosovo condotta dalla Nato nel 1999 e dopo la sua dichiarazione d’indipendenza, la Nato occupa il Kosovo, sebbene le forze militari internazionali siano passate da circa 40mila alle attuali 4mila. Il censimento della popolazione residente in Kosovo (2011) registrava 1,74 milioni di persone, la gran maggioranza giovani di cui il 38% senza occupazione (2021), e un’economia sostanzialmente sovvenzionata dagli aiuti europei (il Kosovo ha adottato l’euro).



Dal 2020, esponenti apicali della società, della politica e delle istituzioni del Kosovo – tutti membri dell’Esercito di liberazione del Kosovo (Kla): Hashim Thaci (ex presidente), Kadri Veseli (ex presidente del parlamento ed ex capo dei servizi segreti), Rexhep Selimi (membro Kla) e Jakup Krasniqi (ex presidente del parlamento) – sono stati accusati di crimini contro l’umanità e in attesa di giudizio presso il tribunale speciale all’Aia (Kosovo Specialist Chambers and Special Prosecutor’s Office). L’ex primo ministro Ramush Haradinaj, membro di rango della Kla, è stato ascoltato come testimone ma non accusato (il tribunale internazionale per i crimini nella ex Jugoslavia (Icty) lo aveva arrestato due volte, 2005 e 2011, ma rilasciato per “mancanza di prove” probabilmente a causa delle intimidazioni sui testimoni). Oltre il 90% della popolazione del Kosovo parla una lingua albanese ed aderisce (blandamente) alla religione islamica.



Le ragioni antropologiche, storiche e culturali a sostegno dell’identità kosovara sono molteplici e ben fondate anche rispetto all’Albania – che i kosovari considerano una sorta di madrepatria, ma non sono egualmente reciprocati – e alla comunità albanofona della Macedonia del Nord, che si considera molto più contigua all’Albania del Sud che al Kosovo. Le comunità non albanesi del Kosovo – serbi, bosgnacchi, rom – sono ridotte a piccole minoranze (molti sono emigrati) ma risalta la consistente eredità culturale, monumentale e religiosa dell’ortodossia serba in molte zone del paese.



Le tensioni tra Serbia e Kosovo non sono una novità ed hanno motivi diversi, più dovuti alla criminalità organizzata che “cattura” i vari Stati piuttosto che alle questioni etnico-religiose o alle oniriche idee di democrazia, diritti, gender, e società civile tanto care all’Unione Europea e all’Osce. Per capirlo, è necessario fare un passo indietro.

La biografia del noto criminale serbo-montenegrino nato in Slovenia Zeljko Raznatovic, alias “Arkan” (1952-2000) – il capo del famigerato esercito paramilitare “Tigri” coinvolto in enormi traffici transnazionali facilitati dalle sue orrende pulizie etniche in Croazia, Bosnia e Kosovo – inizia proprio a Pristina negli anni 70 quando fu reclutato da Stane Dolanc, capo dei servizi segreti della Jugoslavia di Tito. Da quando aveva vent’anni era un criminale al servizio dello Stato, fino alla guerra del Kosovo del 1999 (tra marzo e giugno l’intervento militare della Nato) che segnò la fine del suo ruolo, poco dopo confermato dalla sua esecuzione in un hotel di Belgrado il 15 gennaio 2000 per mano di un ventitreenne poliziotto serbo fuori servizio noto per i suoi collegamenti con il mondo sommerso politico-criminale. Fu seppellito al nuovo cimitero di Belgrado con rito funebre e onori militari ai quali parteciparono più di 10mila sostenitori, tra i quali volti noti della musica, del calcio e della politica, come l’allora esponente di Sinistra Jugoslava, Aleksandar Vulin.

Lo stesso Vulin che negli anni è stato più volte ministro in vari governi della Serbia, anche con la responsabilità per il Kosovo-Metohija, e che dal 1° dicembre 2022 è il direttore della Bia, i servizi segreti della Serbia. Sostenitore indefesso dell’irredentismo serbo in Croazia, Bosnia, Montenegro e Kosovo – il progetto di “grande Serbia” di cui fu accusato Milosevic e arrestato per crimini di guerra nel 2001 – frequenta spesso le comunità serbe in Bosnia e in Kosovo, particolarmente nella municipalità di Zubin Potok (Nord Kosovo) dove ha avuto anche attività “commerciali” ed è “di casa” presso il suo sodale amico e sindaco.

Da anni, la comunità internazionale concentra attenzioni su due figure storiche della criminalità organizzata pan-jugoslava con “base operativa degli affari” a Mitrovica – il serbo Zvonko Veselinović e il kosovaro albanese Mentor Beqiri – e influenti corruttori della politica, delle amministrazioni e della popolazione perché si mantenga lo statu quo di “divisione etnica”. La cooperazione inter-etnica di “affari” tra i due uomini è stata certamente molto lucrativa fino al 2018, quando fu ucciso a Mitrovica Nord il politico serbo Oliver Ivanovic poco dopo il suo ultimo discorso alla radio che puntava il dito ai mandanti politici dei due uomini d’affari, con chiari riferimenti all’establishment di Belgrado e di Pristina. Operativi in affari leciti (costruzioni) finanziati anche da fondi internazionali (ad esempio, l’autostrada Pristina-Tirana), i due sono specializzati nel traffico illegale di idrocarburi, denaro (riciclaggio in parte operato attraverso la rete di agenzie di gioco e scommesse, i “Paradise Casino Admiral” del gruppo austriaco Novomatic), droga, esseri umani, armi, prodotti di consumo, sigarette e alimentari, che usano il Kosovo solo come territorio di passaggio dalle coste adriatiche verso la Serbia, la Macedonia del Nord, la Bulgaria, la Turchia e l’Ungheria, con ramificazioni societarie in vari paesi Ue.

Il rapporto Global Initiative Against Transnational Organized Crime 2019 mostra che il contrabbando nel Kosovo settentrionale è diventato così dilagante da essere considerato “un’attività economica regolare”. Un rapporto dell’Unodoc del 2020 sottolinea che, nonostante un gran numero di procedimenti giudiziari, solo poche persone sono state condannate. La ragione potrebbe essere una combinazione di diversi fattori: indagini e/o procedimenti giudiziari inefficaci, mancanza di prove per dimostrare legami con gruppi criminali organizzati, ostruzione della giustizia e corruzione. Ma il ruolo dei due uomini d’affari di Mitrovica sembra ormai essersi “evoluto” da un livello puramente locale e/o regionale ad “agenti rappresentanti” della grande criminalità internazionale, particolarmente della ‘ndrangheta che, secondo alcune recenti fonti, ha messo basi in Kosovo (Prizren?) poiché “le reti albanesi hanno imparato dal modello della ‘ndrangheta e ora operano anche a monte, fornendo cocaina più vicina alla fonte attraverso intermediari indipendenti: gli albanesi sono stati portati semplicemente per spostare le cose da A a B, ma sono diventati esperti di logistica europea e queste reti logistiche ora appartengono principalmente a gruppi criminali albanesi”. I nipoti di Arkan si sono fatti strada!

A conferma delle ottime “relazioni d’affari” inter-etniche, non si può dimenticare “l’uomo di Zvonko Veselinović in Kosovo”, Ismet Osmani detto Curri, della comunità albanese di Mitrovica Sud, finanziatore e sostenitore dell’ex comandante dell’esercito di liberazione del Kosovo (Kla) ed ex presidente, Hashim Thaci, attualmente in attesa di giudizio per crimini di guerra presso il tribunale speciale all’Aia (Kosovo Specialist Chambers and Special Prosecutor’s Office). Ismet Osmani, residente permanente nella Repubblica Ceca, e il suo clan, nonostante le protezioni del loro sodale Kadri Veseli (anche lui di Mitrovica), sono stati arrestati nel 2019 a Pristina e dopo poco rilasciati su cauzione di soli 50mila euro (il loro giro d’affari è stimato in decine di milioni di euro). Per capire il personaggio, citiamo un rapporto del 2005 dei servizi segreti tedeschi (Bnd) pubblicato da Wikileaks: “si occupa di contrabbando di sigarette, droghe (marijuana, eroina) e carburante ed è considerato particolarmente pericoloso. Mantiene stretti legami con l’Uck (partito politico dell’Esercito di liberazione del Kosovo, nda), con il Thaci (presidente del Kosovo Hashim Thaci, ndr), che deve aver sostenuto finanziariamente nel 1998, così come con il politico kosovaro Ibishi Nuredin (contrabbando)”.

Da altri rapporti investigativi emerge che Ismet Osmani sia stato tra i principali finanziatori e intermediari per l’acquisto di armi della Kla (esercito di liberazione del Kosovo) sin dagli albori. Nel 2021, la sua compagnia bulgara “Citadel Bg” aveva come associata Rositsa Kirova che in quell’anno fu eletta parlamentare nelle liste del partito Gerb del primo ministro uscente.

In questo contesto è piuttosto facile intuire che, come dicevamo, le questioni di targhe automobilistiche e documenti di identità non sono il vero oggetto del contendere tra Serbia e Kosovo. Dalla nota città divisa dal fiume Ibar, Mitrovica, parte una strada verso Nord che si biforca in direzione della Serbia, un ramo verso Raska e l’altro verso Novi Pazar. La strada è costantemente monitorata giorno e notte, e ormai difficilmente vi passano i traffici dei due “uomini d’affari” di Mitrovica.

Invece, esiste un altro collegamento che rende comunicabili Serbia, Kosovo, Montenegro e Bosnia: il nodo di Zubin Potok. Vasta zona collinosa e montagnosa poco abitata, con consistenti foreste e un lago artificiale (che fu fiore all’occhiello idroelettrico dell’ex Jugoslavia). L’area geografica in questione è quella che, dai tempi dell’impero ottomano, è sempre stata zona di traffici incontrollabili. Oggi come allora. Non a caso, come abbiamo scritto, quest’area è quella preferita da Aleksandar Vulin. La strada di montagna (ma molto ben tenuta) che collega Zubin Potok a Istog e Radac (in Kosovo) prosegue indisturbata su un lato verso il Montenegro e poi nella Bosnia meridionale, e dall’altro verso Peja, Gjacova, Prizren e infine Scutari (il porto nell’Adriatico dell’Albania). I controlli sono pochi o inesistenti, particolarmente di notte quando molti camion l’attraversano senza ostacoli.

Questa è la vera miniera d’oro dei traffici. I mezzi di trasporto cambiano facilmente targhe secondo i luoghi e così i passeggeri/autisti presentano documenti diversi secondo i luoghi (molti hanno più di una nazionalità nella regione). In ogni caso, i carichi in movimento non sono soli e quando si presenta un problema, come ci fanno sapere le cronache, non si esita ad usare le armi. Nessuno guarda, neppure la Nato. Ma tutti sanno.

Ogni volta che “le quote” degli affari vengono “disturbate” scoppia la crisi delle targhe o altro. Non è un caso, quindi, che quest’anno la crisi sia scoppiata in coincidenza della condanna a 26 anni di Salih Mustafa (16 dicembre) per crimini contro l’umanità inflitta dal tribunale speciale dell’Aia. Per gli altri imputati, ricordati sopra, l’indagine è conclusa e gli atti sono stati trasmessi ai giudici della camera penale. Se oltre a Salih Mustafa saranno condannati gli altri, le “quote degli affari” si altereranno parecchio. Se i “comandanti” kosovari perdono, i serbi guadagnano. E ciò, in una mentalità clanica, non va proprio bene!

Chi scrive è stato con l’Onu nella ex Jugoslavia dall’inizio del 1992 alla fine del 1995 (inizio e fine della guerra, e sopravvissuto a Ilok per “grazia” di Arkan), in Albania a più riprese tra il 1996 e il 2021, e in Kosovo nel 2016-17 con l’Osce, direttore dell’ufficio regionale a Mitrovica. È interessante notare che in quest’ultima esperienza, nonostante la conoscenza e le confermate capacità, il tentativo di far funzionare l’organizzazione su cose più serie del gender, della società civile o dei diritti, ha incontrato un muro di gomma. Non nelle società locali ma nelle stesse organizzazioni internazionali, che con un pretesto ridicolo e inventato si sono sbarazzate di lui (forse hanno preferito non disturbare!).

Quanto al ruolo dell’Italia nella regione in questo caso, c’è poco da dire vista l’indecenza di aver accusato il suo primo ambasciatore in Kosovo, Michael Giffoni, di crimini mai commessi, assolto per non aver commesso i fatti come deciso dai tribunali penali italiani, ma di averlo cacciato con onta dalla carriera diplomatica senza alcuna giustificata (o giustificabile) ragione. Il governo attuale, che si erge a governo dell’interesse nazionale, dovrebbe riflettere seriamente e con sapienza su quanto accade, ed è accaduto, nei Balcani occidentali che una volta erano al centro della politica estera e di sicurezza dell’Italia.

È doveroso ricordare il povero Franco Frattini recentemente scomparso, nonostante la sua partecipazione al bombardamento del nostro alleato, la Libia, ma facciamo anche uno sforzo adeguato a ricordarci di Gianni De Michelis, che sui Balcani incentrò le politiche di vari governi italiani dal 1989 in poi.

Al momento, l’Italia nei Balcani è presente per omissione e distrazione. Mentre l’Unione Europea promette con vane parole di incoraggiamento una lontana adesione di questi Paesi, non basta affatto andare al vertice in Albania senza una strategia. La Nato supplisce all’assenza di politica, ma la criminalità organizzata la fa da padrona.

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