Il deserto del Sahel, l’ex Africa occidentale francese, su cui Parigi nonostante la fine del dominio coloniale ha continuato a esercitare una influenza e uno sfruttamento economico continuo, è una regione dove le tensioni sono sfociate da tempo in guerra. Una regione che da diversi anni è attraversata dall’irredentismo islamista con una miriade di formazioni locali che in qualche modo fanno capo ad al Qaeda, provocando conflitti, massacri, scontri. Per questo motivo, secondo fonti vicine all’ufficio di presidenza di Emmanuel Macron, la Francia sarebbe intenzionata ad aprire un canale di dialogo con le formazioni locali jihadiste, ma non con al Qaeda, considerata organizzazione internazionale terroristica che va al di là della situazione locale e con cui di fatto non è possibile trattare. Secondo le intenzioni francesi, invece, come ci ha detto il generale Carlo Jean, esperto di strategia, docente e opinionista, “dialogare con i gruppi locali, ponendo in atto una sorta di armistizio, permetterebbe a questi gruppi di staccarsi da al Qaeda, isolandola e risolvendo quantomeno le situazioni locali, il che sarebbe già un bell’obiettivo”. Il problema, ci ha detto ancora Jean, “è che un intervento di questo tipo non metterebbe fine ai flussi migratori che attraversano il Sahel, perché i gruppi jihadisti proprio da questi flussi ottengono grandi fonti di guadagno: privandoli di questi, si scatenerebbero ancora contro la Francia e i governi locali”. Una posizione che ovviamente contrasta con quella italiana, impegnata invece proprio nel fermare i flussi migratori.



Questo tentativo di accordo è secondo lei una sorta di resa della Francia?

No, con questo tentativo si cerca invece di sfruttare le divisioni esistenti tra i gruppi jihadisti escludendo al Qaeda, che verosimilmente costituisce un elemento di turbamento per questi gruppi presenti nel Ciad, nel Mali e in Niger. È un approccio abbastanza simile a quello che gli Usa seguono con i talebani in Afghanistan.



Cioè?

I francesi si rendono conto che è impossibile un impegno militare tale da poter eliminare questi gruppi radicali e di conseguenza, non essendo possibile eliminarli, devono trovare un qualche compromesso. Compromesso che, tra parentesi, mira a rompere la collaborazione tra questi gruppi, mettendoli uno contro l’altro.

Cosa può dare in cambio la Francia?

Può soprattutto non attaccarli con le truppe che ha schierate nel Sahel, influenzando anche i governi locali a fare lo stesso, ma attaccare quelli che danno fastidio, come al Qaeda.

Questo ipotetico accordo porrà fine almeno in parte ai flussi migratori che attraversano il Sahel?



Direi di no per un semplice motivo: l’emigrazione arricchisce le tribù del Sahel, quindi un’azione anti-immigrazione da parte francese finirebbe per sobillare le rivolte di queste tribù contro la Francia. Per questo Parigi ha sempre distinto l’anti-terrorismo dall’anti-immigrazione e non sono mai intervenuti in Niger e nel Ciad, zone che garantiscono un mucchio di soldi alle tribù locali, per evitare uno scontro.

Una sorta di non interventismo che continua ad alimentare le migrazioni?

I migranti dalla Libia vengono in Italia, non vanno in Francia. Di conseguenza Parigi non ha interesse a cercare guai con queste tribù. Il problema principale è che manca una politica, una credibilità italiana per perseguire un’alleanza vera e propria con la Francia all’interno di una politica comunitaria nel Sahel. L’Italia è contro le migrazioni, mentre la Francia è più orientata all’anti-terrorismo. Le due cose sono contrapposte.

Una situazione, dunque, che lascia in stallo la lotta all’immigrazione? Cosa dovrebbe fare l’Italia per raggiungere un accordo con la Francia?

Gli interessi sono divergenti, così come in Libia. Sembrava che fosse possibile un accordo tra Parigi e Roma in funzione anti-turca e anti-russa, poi non se ne è fatto nulla. Tanto meno i due paesi possono trovare un accordo sul Sahel. Se la Francia si associasse nell’azione anti-migratoria, si indebolirebbe troppo nei confronti dei terroristi.