Più di cento attacchi, dal 7 ottobre al 28 gennaio, portati a segno contro basi Usa dislocate tra Siria e Iraq, e di striscio in Giordania (il drone che una settimana fa è riuscito a colpire il compound Al Tanf, nascosto nella traccia radar di un altro drone in rientro alla base, proprio nel confine volatile tra i tre Stati, causando la morte di tre soldati americani). Un colpo da una delle fazioni proxy filoiraniane, e uno strike Usa di risposta: un ping pong micidiale tra players che sembrano non voler arrivare a schiacciare davvero, un logoramento che però vede assai più a proprio agio le milizie islamiche rispetto alle forze occidentali nel quadrante, massicce ma programmate più per guerre di tradizione, con schieramenti definiti, piuttosto che a guerriglie dove i nemici sono mutanti sfuggevoli, infrattati nei tunnel o tra le tende indistinguibili dei deserti.
La schiacciata fatale, quella che metterebbe in moto lo scontro diretto tra i due contendenti, gli Usa e l’Iran, resta sospesa, mentre tutti preferiscono portare avanti i conflitti fuori dai rispettivi confini, in territori (soprattutto Siria e Iraq) che ormai somigliano a no man’s lands, campi dai governi imprecisati e impotenti al controllo, dove tutti si sentono in diritto di colpire tutti. Una widesprear war, una guerra diffusa, sempre più difficile da contenere.
L’altro giorno, in risposta alle tre vittime di Al Tanf, gli Usa hanno colpito 85 obiettivi in Siria ed Iraq (tra i quali anche basi della Forza Quds del Corpo delle Guardie della rivoluzione islamica dell’Iran) utilizzando numerosi aerei da controllo e combattimento, perfino bombardieri B-1B Lancer a lungo raggio partiti dagli Stati Uniti. Raid che l’Iran ha accusato di “minare la stabilità regionale” e l’Iraq di “violazione della sovranità nazionale”, dichiarazioni surreali, ovviamente, ma che contribuiscono ad accentuare quella curva a crescere di toni e minacce che lascia ben poco spazio alle diplomazie. E in clima di campagna elettorale (sia negli Stati Uniti, sia in Iran) ogni parola implica un gesto, pena una possibile delegittimazione.
Nel focolaio del conflitto, a Gaza, tutti parlano di una possibile tregua, ma i combattimenti continuano senza soluzione di continuità, più violenti che mai, specie nei dintorni di Khan Yunis, mentre 800 funzionari Onu denunciano la “possibilità di un genocidio” e gli oltranzisti israeliani a destra del Likud si preparano a colonizzare zone costiere della Striscia per farsi la villetta al mare. I due Stati restano ancora un miraggio, in attesa che si compia una delle due variabili in gioco: o la fine (o la resa) dei guerriglieri Hamas, o la caduta definitiva del Governo Netanyahu.
Nell’altro quadrante a fuoco, il Mar Rosso, gli strike angloamericani sono ancora ben distanti dal dissuadere gli Houthi dai loro attacchi ai convogli navali in transito. Due giorni fa solo i sistemi Phalanx del cacciatorpediniere Usa Gravely hanno saputo disintegrare i droni e il missile balistico lanciato dalle coste yemenite. Da notare che il Phalanx è un’arma da difesa ravvicinata, basata sulle “vecchie” Gatling, le bocche a tiro rapido (45mila proiettili al minuto), controllate da radar e computer, ma utili per minacce imminenti, a significare che missile e droni erano davvero a pochi secondi dal loro obiettivo.
In questo scenario, tra un paio di settimane prenderà posizione la missione europea Aspides: l’UE ha chiesto all’Italia “di fornire il Force Commander dell’Operazione Aspides nel Mar Rosso”, cioè l’ammiraglio che esercita il comando imbarcato degli assetti navali ed aerei che partecipano all’operazione. Un comando tattico sul campo, insomma, mentre il comando a terra potrebbe essere istituito in Grecia, Paese che partecipa direttamente all’operazione – con supporto navale ed aereo – insieme a Italia, Francia e Germania. “L’Italia contribuirà a garantire la libera navigazione e la sicurezza del traffico commerciale nel Mar Rosso” ha detto il ministro della Difesa, Guido Crosetto, aggiungendo che ad assistere le navi da guerra saranno anche gli aerei dell’Aeronautica militare italiana: nel Golfo di Aden opererà anche un Gulfstream Caew, un avanzatissimo velivolo di sorveglianza e comunicazioni (sviluppato da Israele), che tra i Paesi Nato risulta in dotazione solo all’Italia. L’ammiraglia italiana delle forze di Aspides potrebbe quindi essere la fregata FREMM Martinengo (già nell’area), anche se non si può escludere un suo avvicendamento con la meglio armata Bergamini (medesima classe) o anche lo schieramento supplementare di un cacciatorpediniere lanciamissili classe Orizzonte (come le FREMM si tratta di progetti congiunti tra Italia e Francia).
Il comando italiano era abbastanza prevedibile, visto che proprio l’Italia (senza alcun porto sull’oceano) è uno dei Paesi più sensibili al traffico commerciale attraverso Mar Rosso e Suez. “L’Italia è un Paese votato alle esportazioni: il 40% dell’export marittimo passa dal Canale di Suez – ha detto il vicepremier Tajani –. È nostro interesse fare di tutto per proteggere le navi mercantili. Ma Aspides sarà una missione difensiva: proteggeremo i transiti, ma non attaccheremo gli Houthi nello Yemen”.
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