I dati dell’Unhcr, l’organismo dell’Onu che si occupa dei rifugiati, dicono che dall’inizio di gennaio fino al 10 maggio più di un milione di persone in Somalia si sono dovute spostare dai luoghi di residenza in altre zone del loro Paese.
La guerra che imperversa da tempo, ma anche le forti precipitazioni e la siccità, li hanno costretti a trasferirsi per sopravvivere. In una nazione nella quale l’esodo è quasi una condizione di vita, nei primi mesi dell’anno oltre 400mila persone sono sfollate a causa delle inondazioni, mentre paradossalmente altre 300mila se ne sono dovute andare per il problema opposto: la mancanza d’acqua. Dati che hanno fatto ipotizzare un’eventuale ricaduta di questa situazione per l’Italia e l’Europa, come meta di questi potenziali migranti.
In realtà, racconta padre Giulio Albanese, comboniano, giornalista esperto di questioni africane, se questi spostamenti provocheranno un’aumento dei migranti lo vedremo sul lungo periodo. E comunque la maggior parte degli sfollati non ha risorse sufficienti per mettere in programma un viaggio del genere: sono troppo poveri per poter partire. Negli ultimi mesi si sono spostate un milione di persone, ma gli sfollati in Somalia, sempre secondo l’Unhcr, sarebbero 3,8 milioni: una condizione, insomma, che riguarda una larga fetta della popolazione.
Padre Albanese, gli sfollati somali possono incrementare il flusso di migranti verso le coste italiane?
Potrebbero arrivare, ma ci metterebbero qualche anno. È difficile comunque riuscire a capire lo stato dell’arte per quanto riguarda i rifugiati: dopo un po’ di tempo, quando queste persone rimangono in una zona per più di un anno, li considerano stanziali. Diciamo che in linea di massima in queste condizioni c’è quasi la metà della popolazione della Somalia. Le cifre sugli follati sono da prendere con il beneficio d’inventario e comunque, dal mio modesto punto di vista, sono cifre in difetto, non certo in eccesso. È un Paese intero che vive l’esodo. Il problema, comunque, non è se vengono da noi: non hanno i soldi per arrivare e quelli che hanno tentato ci hanno impiegato anni. Dovremmo preoccuparci, invece, di andare incontro a questa umanità dolente.
Perché si spostano?
Lo fanno un po’ per la siccità, ma anche perché c’è insicurezza. Il territorio è tutto parcellizzato, non c’è una autorità che controlla. Ed è anche difficile assisterli. Le condizioni ambientali rendono tutto questo ancora più difficile da monitorare, perché prima si sapeva quali erano le traiettorie che seguivano ma con il problema della siccità vengono sparigliate le carte. Sono scenari confusi con spostamenti anche difficili da monitorare.
Sono persone che vivono quasi da nomadi, spostandosi di volta in volta in cerca di condizioni di vita migliori?
Sì, è così. Comunque è difficile che arrivino in Italia. Quelli che vengono qui stanno relativamente bene, non sono quelli che stanno malissimo. Gli sfollati somali non so neanche se possono arrivare in Kenya, che è una nazione confinante.
In Somalia molti si spostano per la siccità, ma molti altri, anche di più nell’ultima tornata, lo fanno a causa delle inondazioni. Paradossalmente due situazioni opposte che convivono?
Da una parte quando piove lo fa in una maniera spaventosa, però in altre zone c’è una siccità che va avanti da anni. Non c’è più un equilibrio.
E tanto per non farsi mancare niente c’è anche la guerra civile.
Certo, la guerra c’è dal 1991, dalla caduta del regime di Siad Barre. Da un certo punto di vista si può dire che non è neanche una guerra: è un Paese che è imploso, per responsabilità condivise, anche occidentali. Uno scenario molto difficile da spiegare. Sta di fatto che la Somalia è diventata il buco nero dell’Africa.
Ma c’è un’autorità riconosciuta?
C’è il Governo di Mogadiscio che è internazionalmente riconosciuto, ma che controlla pochi scampoli di territorio.
E il resto è controllato dalle milizie?
Sì, ci sono i miliziani islamisti di Al Shabaab poi i vecchi signori della guerra che hanno sempre le loro milizie private.
Dietro ci sono interessi occidentali o di qualche Paese straniero?
In Somalia c’è il petrolio, tanto, sia sulla sponda yemenita che su quella somala del Golfo di Aden. Ci sono giacimenti di gas. Una situazione di cui nessuno parla mai. Ci sono anche giacimenti di uranio, lo si sa dalla fine degli anni 80. I russi erano stati i primi a firmare accordi con Siad Barre, poi tutto è rimasto sulla carta.
Adesso chi sfrutta i giacimenti?
Nessuno. Nel Puntland, una regione semiautonoma, c’era stato qualcuno che ha tentato di trivellare e di estrarre qualcosa. Credo che fossero gli inglesi, ma hanno fatto poco. Anche perché il problema è l’insicurezza. Se non si normalizza la situazione non si va da nessuna parte. Qualche responsabilità in questa situazione ce l’hanno anche i somali. Si tratta di uno scenario estremamente complesso. Anche l’Italia, visti i suoi trascorsi coloniali, qualcosa di più avrebbe potuto fare.
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