“Lavorerò per l’Ue”: l’europeismo di Olivér Várhelyi, commissario designato dall’Ungheria, non ha convinto Strasburgo. Socialisti, Liberali, Verdi e Gue ne hanno respinto la candidatura, espressione del partito di Orbán, mentre due giorni fa è passata per un soffio quella del controverso Thierry Breton, pedina di Macron nel nuovo governo dell’Unione.



Una commissione che stenta a prendere forma, quella di Ursula von der Leyen, ostaggio di veti incrociati, di maggioranze mutevoli e soprattutto delle mire di Macron e Merkel per volgere a proprio vantaggio gli equilibri europei. Entrano in questa partita il completamento dell’unione bancaria, richiesto ora con urgenza sospetta da una Germania politicamente divisa al proprio interno, e i messaggi assai poco concilianti che arrivano alla presidente Bce Christine Lagarde dai membri tedeschi del board.



E l’Italia? “Mai come ora ci serve un vero piano B”, spiega Mario Esposito, ordinario di diritto costituzionale nell’Università del Salento.

L’Unione Europea è in evidenti difficoltà politiche. Non crede che in Italia siano sottovalutate?

È ciò che succede quando si vuol far passare per federazione ciò che federazione non è. Alcuni ancora si illudono che possa esserlo e si comportano come se lo fosse; altri invece usano le istituzioni europee per ciò che realmente sono.

E lei come le definirebbe?

Una sorta di consorzio. La crisi della “maggioranza Ursula” somiglia molto ad una disputa interna a un consiglio di amministrazione. E così assistiamo a veti incrociati, strategie per indebolire i partner, insomma tatticismi che paiono lontani, anche nelle forme, dalla dialettica tra componenti di un ente politico.



L’errore italiano?

Avere scambiato il consorzio per un progetto politico quasi realizzato. Prima ce ne rendiamo conto e meglio è. Invece si parla ancora di “federalismo asimmetrico”, di pre- o “quasi-federalismo” e via dicendo. Soprattutto, se non soltanto, in Italia. Ma sono solo giochi verbali. Quando il nome non descrive la realtà, il problema è del nome o della realtà?

Tutto questo cosa implica?

Che le forme giuridiche contano. Se davvero non c’è nella storia delle forme statali qualcosa di simile all’ Unione Europea un motivo ci sarà. Qual è la forma di governo dell’Ue? C’è chi da anni tenta di rispondere senza riuscirvi.

A che cosa stiamo assistendo?

Ad uno scontro tra Germania e Francia per il predominio europeo. I trattati che governano l’Unione fanno di essa un organismo molto più vicino all’ambito societario commerciale.

Ci faccia capire. Prendiamo il Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea.

358 articoli per nascondere che Germania e Francia non metteranno mai realmente in comune la loro sovranità. Chi lo crede o è in mala fede o non sa di cosa parla. Non solo non c’è la sovranità condivisa; non c’è nemmeno l’entente cordiale.

Che conclusioni ne trae?

Che l’assetto europeo, nei suoi assi portanti, probabilmente ha finito di funzionare. E promette peggio.

Qualcuno direbbe che non si è voluto portare a termine la federazione.

Verbiage. Si sa da molto tempo che non c’era e non ci sarebbe stata una federazione. Basta seguire le modalità di costituzione delle Comunità europee, che non hanno mai richiesto quella parità di forme e di effetti, sul piano degli ordinamenti interni, che avrebbe potuto condurre ad una federazione, che è una unione tra eguali…

“L’unione bancaria va portata avanti per garantire l’euro” ha detto la Merkel. Unione bancaria vuol dire condivisione dei rischi.

Che teoricamente un sistema di vigilanza bancaria uniforme sia coerente con una federazione monetaria, è corretto. La mancanza, come ha ben illustrato Fabio Merusi, ha consentito un uso “incontrollato e moltiplicato degli equipollenti monetari”. Il nodo allora è politico: senza un tale sistema di vigilanza l’euro ha potuto fungere da strumento di dominio, ben più che di unificazione. Direi che la Grecia e l’Italia del 2011 insegnano.

E poi?

Poi, quando il sistema fondato sull’euro va in crisi e non svolge più così bene il suo ruolo, si fanno cenni, peraltro vaghi, a riforme che da un lato dovrebbero contribuire a rendere la moneta irreversibile, e dall’altro a impegnare anche le collettività di quei paesi che le istituzioni finanziarie dei paesi egemoni hanno potuto meglio colpire grazie alla “rete europea”, a sopportare le conseguenze delle difficoltà di tali “raider”. 

La Germania risponde all’offensiva di Macron mandando segnali ostili a Christine Lagarde. Cosa succede se lo scontro si trasferisce ai piani alti della Bce?

Temo uno stallo pericoloso, perché fino ad oggi si è contato sul fatto che la Bce potesse continuare a svolgere un ruolo di supplenza politica. Se Lagarde non riesce a imporre la sua linea all’interno del board, il rischio minore è quello di un ennesimo compromesso franco-tedesco ai danni dell’Italia.

Quali sono per il nostro paese le conseguenze di uno stallo politico nell’Unione?

L’assoggettamento della periferia a centri di potere continentale. Intanto qualcosa si comincia a vedere: il rapporto fiduciario che il governo M5s-Pd pensava di avere con la Commissione in virtù del suo ruolo “anti-sovranista” si è esaurito e rischiamo di essere sottoposti a trattamenti ancora più severi.

Cosa la preoccupa di più in questa situazione?

La sorte incerta delle nostre riserve auree. Se recuperassimo la sovranità non solo finanziaria cui abbiamo volontariamente rinunciato con la riforma costituzionale del 2012, potremmo ricostituire i presupposti dell’emissione monetaria.

C’è anche un piano B politico: un patto istituzionale tra il garante italiano dell’eurosistema, Mario Draghi, e il primo revisionista dello Status Quo, Matteo Salvini, oggi non a caso su posizioni più moderate.

Non è un piano B. Ripeto, le forme giuridiche contano: o si rimette mano a quelle, o non si va da nessuna parte. Rimarremmo prigionieri delle soluzioni contingenti. Non si può supplire con le persone, anche le più geniali, alla mancanza delle norme – o alle norme sbagliate.

Siamo all’Italexit?

No, al riconoscimento che in Europa non ci sono condizioni di parità, ammesso e assolutamente non concesso che siano mai state volute, e che dunque occorre adeguarsi alle mutate condizioni.

Per fare ciò che fanno da sempre Francia e Germania?

Quanto sta accadendo ci dice che l’Unione Europea ha evitato le guerre armate, ma non i conflitti interstatali: li ha procedimentalizzati. Tacciono le armi e non è poco, per carità. Ma non c’è pace nel senso pieno dell’articolo 11 della Costituzione. E ancor meno giustizia tra le nazioni. Occorre allora difendersi, non per dominare, ma per non soccombere.

(Federico Ferraù)