Il tema delle proteste a sostegno della causa palestinese nelle università rimane nelle prime pagine di tutti i quotidiani statunitensi ed infiamma il dibattito politico, sociale e culturale americano. È da poco dopo il 7 ottobre che eventi di vario tipo a sostegno della causa palestinese trovano ampio spazio nei campus americani, così come nelle università e nelle piazze europee, ma nelle ultime settimane la tensione è cresciuta in maniera preoccupante; inizialmente, quando sono state piantate le tende nei campus delle più importanti università statunitensi, partecipavano anche gruppi di ebrei arrabbiati con il governo israeliano di Benjamin Netanyahu: la protesta era guidata dall’attenzione alla causa umanitaria ed alle vittime civili del conflitto (anche se da sempre le vittime israeliane sono state messe su un secondo piano).
Pian piano la protesta nei campus è passata da un generico cessate il fuoco alla richiesta che l’università smettesse di essere finanziata, e di finanziare (le più grandi università americane sono attive in borsa come veri e propri fondi di investimento) aziende legate a Israele; oggi si grida contro l’imperialismo. Il manifesto del gruppo Palestine Action US parla chiaro: non più protesta pacifica ma resistenza attiva sul suolo americano; gli slogan ritmati nei campus sono molto netti, “from the river to the sea”: la Palestina va dal fiume al mare, e chissenefrega se in mezzo ci sono città, aziende, villaggi, ospedali, università israeliane. Gli slogan antimperialisti sono spesso diventati esplicitamente antiamericani, con sempre più ampi gruppi di studenti e docenti che rileggono la storia degli Stati Uniti come una grande oppressione, prima nei confronti dei nativi americani, poi degli schiavi africani, poi dei sudamericani ed infine verso tutti quei popoli non bianchi con cui gli Stati Uniti hanno avuto a che fare.
In alcuni campus vengono organizzate preghiere islamiche, guidate da soggetti collegati all’organizzazione American Muslims for Palestine, accusata di tenere stretti legami con Hamas, cui partecipano persone non musulmane in solidarietà ed in forte polemica con le politiche statunitensi. Numerosi sono i casi di bandiere americane sostituite da bandiere palestinesi, e ancor più numerosi gli insulti e le aggressioni verso studenti e docenti ebrei (spesso loro stessi in polemica con il governo israeliano) che hanno mostrato ai manifestanti simboli israeliani o anche solo i nomi delle donne e dei bambini ancora ostaggi di Hamas e sulle cui condizioni ormai si nutrono ancora poche speranze. Ai megafoni e nei circoli di manifestanti risuonano sempre più spesso parole come “il vero asse del male è quello Gran Bretagna-Stati Uniti-Israele”, o anche semplicemente “Allah Akbar” ed in alcuni casi sono apparsi i vessilli di Hamas, richiami all’Intifada e persino parole di sostegno al regime iraniano. Negli ultimi giorni sono state interrotte dai protestanti persino alcune cerimonie di “commencement”, nelle grandi università statali del Michigan e dell’Indiana, che sono considerate i momenti più importanti dell’anno accademico, in cui si salutano i neolaureati ed in cui si riflette sull’anno accademico concluso.
Quella appena trascorsa è stata però la settimana della reazione, sia da parte delle autorità accademiche e delle forze dell’ordine che da parte degli stessi studenti, che non accettano gli slogan e le ideologie portate avanti da chi protesta. Molte università, dopo settimane di tentennamenti e di tolleranza nei confronti di manifestazioni, occupazioni, violenze verbali ed in alcuni casi anche fisiche nei confronti di studenti ebrei, hanno richiesto l’intervento delle forze dell’ordine, per ripristinare la legalità: il New York Police Department ha dichiarato come circa la metà degli arrestati durante gli interventi nei campus della Columbia, del City College e della NYU non siano studenti universitari e ha anche sottolineato come alcuni di questi siano soggetti già ben noti alle forze dell’ordine; forte è il sospetto di una eterodirezione delle proteste anche da parte di soggetti ben collegati con gruppi fondamentalisti stranieri. In molte delle università dove non è entrata la polizia i manifestanti hanno accettato di rimanere in appositi spazi e di non inficiare il regolare svolgimento di lezioni ed esami, mentre in molti istituti stanno arrivando sanzioni nei confronti dei più facinorosi. Tali azioni sono arrivate anche in risposta alle osservazioni di molti esponenti repubblicani, tra questi, da ultimo, Mike Johnson. Lo speaker repubblicano alla Camera, che si è recato a visitare il campus della Columbia University vandalizzato dai manifestanti, ha apertamente accusato le amministrazioni liberal di molte università di tollerare eccessi, violenze, manifestazioni che fatte da altri gruppi non sarebbero state tollerate.
Ma la reazione non è stata solo delle autorità accademiche, è venuta anche dagli studenti: nel campus della University of Chicago un gruppo di studenti ha manifestato sventolando bandiere americane e cantando l’inno nazionale, nella Luisiana State University il gruppo di studenti che cantava a squarcia gola l’inno nazionale ha superato di gran numero i manifestanti filopalestinesi, in Mississippi e Alabama gli studenti delle confraternite hanno allontanato al grido di “USA, USA, USA!” chi protestava. Gli studenti della confraternita Pi Kappa Phi, che avevano difeso la bandiera americana contro una folla intenzionata a sostituirla con una palestinese del cuore nella North Carolina State University, hanno dovuto chiudere la propria pagina di sostentamento, tramite il portale GoFoundMe, dopo aver raggiunto la cifra record di 500mila dollari di donazioni: hanno annunciato che con quei soldi organizzeranno la più grande festa patriottica che si possa ricordare nel loro Stato.
Tra i primi a fargli un regalino di 10mila dollari figura Bill Ackman, miliardario newyorkese di origine ebraica, fondatore e gestore di alcuni hedge fund di particolare successo e ultimamente particolarmente attivo su X (ex Twitter). È uno dei capifila dei grandi donatori che hanno sospeso finanziamenti e donazioni alle università che non prendono le distanze dall’antisemitismo di molti dei manifestanti e ha finanziato iniziative quali quella di un gruppo di studenti della George Washington University che ha installato, proprio di fronte all’area occupata dai manifestanti filopalestinesi, dei maxischermi sui quali sono state proiettate in loop le violenze perpetrate da Hamas il 7 ottobre. Le pressioni esercitate da Ackman, e non solo, non sono unicamente di tipo economico e politico; ne sa qualcosa Claudine Gay, ex rettrice di Harvard, accusata di aver tollerato atteggiamenti antisemiti, costretta a dar le dimissioni, fra le altre ragioni, dalla scoperta che molti dei suoi scritti, inclusa la tesi di dottorato, sono frutto di plagio; ad aver scoperto il plagio è stato proprio un team di esperti di intelligenza artificiale finanziato dallo stesso Ackman.
Anche dal punto di vista politico diversi esponenti repubblicani si sono mossi per inasprire le sanzioni nei confronti dei manifestanti violenti, ad esempio facendo approvare alla Camera una legge che li escluda dai sostegni federali per il pagamento delle rette scolastiche, e stanno sottolineando l’imbarazzo dei democratici, stretti tra la necessità di non perdere voti a sinistra e quella di non perdere voti al centro. Iconica la domanda twittata del senatore repubblicano Marco Rubio: in tutto questo “Dov’è il nostro presidente?”.
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