Se le università sono lo specchio, magari uno degli specchi, di un Paese, gli Stati Uniti hanno un problema.
Le proteste dei movimenti liberal a sostegno dei palestinesi e contro le politiche del governo israeliano sono iniziate negli stessi giorni in cui Israele ha iniziato le operazioni militari nella striscia di Gaza. Gli eventi sono stati molteplici e di varia natura: dalle contestazioni nei confronti di speaker legati ad Israele all’organizzazione di eventi di sensibilizzazione sulla situazione palestinese, dallo strappare in maniera sistematica le foto degli ostaggi rapiti da Hamas (130 sono ancora prigionieri e per molti di questi si teme che siano stati uccisi) al dispiego della simbologia cara ai sostenitori della causa palestinese: bandiere e kefiah.
I gruppi che sostengono attivamente la protesta sono vari, si va dagli attivisti LGBTQ+ ad associazioni islamiche radicali, da gruppi liberal tradizionali ai Black lives matters. La protesta filopalestinese si è saldata con molti temi cari alla sinistra liberal che rientrano nella definizione di cultura “woke”: l’idea che gli Stati Uniti siano una nazione nata da un’oppressione (verso i nativi americani) e fondata su oppressione e discriminazione razziale, e che quindi sia necessario porre azioni di riparazione verso le categorie che in passato sono state oppresse.
Poco chiaro anche a chi scrive è come facciano i gruppi LGBTQ+ ad appoggiare la causa palestinese, addirittura partecipando ad alcune preghiere islamiche comunitarie promosse da organizzazioni di giovani musulmani, considerando che in Israele il matrimonio gay è legge da diversi anni mentre nei territori palestinesi, come in molti Stati arabi, le persone omosessuali sono spesso vittime di violenze verbali e fisiche.
Fin da subito queste proteste sono state accusate di antisemitismo, sia per i toni violenti di molti degli attivisti (numerosi sono i video in cui si vedono studenti ebrei insultati e minacciati) che per le giustificazioni che spesso vengono date al massacro del 7 ottobre, che viene considerato una giusta reazione verso un regime oppressivo. Le autorità accademiche hanno da subito faticato a gestire le tensioni e a prendere una posizione chiara sul conflitto: esemplare è stata l’udienza da parte delle tre rettrici di alcune delle più prestigiose università americane di fronte ad una commissione della Camera dei rappresentanti USA durante la quale le tre autorità accademiche hanno faticato a rispondere alla domanda della deputata repubblicana Elise Stefanik se l’invocare il genocidio degli ebrei violasse i codici di condotta delle loro università riguardo a bullismo e molestie. Dopo quell’episodio la rettrice di Harvard Claudine Gay e quella dell’Università della Pennsylvania Liz Magill sono state costrette alle dimissioni dalle pressioni arrivate sia da gruppi di politici locali e nazionali (gruppi bipartisan) che dai grandi finanziatori di origine ebraica, che non hanno tollerato le ambiguità delle università sull’antisemitismo.
Nelle ultime settimane c’è stata un’escalation: in molti campus universitari si sono formati accampamenti di studenti che protestano, chiedendo l’interruzione dei rapporti tra le università e altri soggetti (università, aziende, scuole, fondazioni) legate allo Stato di Israele. Diverse università, tra cui la Columbia University di New York, hanno dovuto sospendere le lezioni, invitando i docenti a terminare il semestre in videocollegamento e si sono trovate imbarazzate nel prendere decisioni, da un lato pressate dalla richiesta di ripristinare l’ordine e la legalità, nonché di tutelare gli studenti ebrei che spesso sono risultati vittime di minacce e insulti, dall’altra dalla richiesta di garantire la libertà di espressione (free speech) a studenti e professori che protestano.
Nella notte tra martedì e mercoledì due episodi hanno segnato il culmine della tensione: la polizia di New York, su invito della direzione dell’università, è intervenuta in forze nel campus dell’ateneo, sgomberando l’occupazione in atto presso la Columbia University e arrestando circa 300 persone. Il sindaco di New York, il democratico Eric Adams, afroamericano ed ex poliziotto, ha detto che della “protesta pacifica” della Columbia si erano appropriati “agitatori professionisti esterni” che vogliono seminare il caos. Adams aveva anche chiesto ai manifestanti di lasciare il campus prima che la situazione degenerasse: “Forse qualche studente non capisce in cosa si sono ficcati. Chiediamo a loro e a quanti stanno violando l’ordine di Columbia di lasciare l’area, di lasciare l’area subito”. Sicuramente simbolico il momento in cui un gruppo di poliziotti, formato da bianchi, ispanici e afroamericani, ripristina la bandiera USA, che era stata sostituita da quella palestinese sul pinnacolo dell’università.
Sempre nella stessa notte, presso la University of California, a Los Angeles, università dove da settimane un gruppo di attivisti filopalestinesi aveva occupato una parte del campus costruendo barricate e dove la direzione accademica si è dimostrata molto più tollerante che alla Columbia, a seguito della denuncia da parte di una studentessa ebrea di essere stata picchiata selvaggiamente dai manifestanti filopalestinesi, circa un centinaio di attivisti filoisraeliani è entrato in università per affrontare i manifestanti. Sono scoppiate diverse risse e ci sono stati alcuni feriti, solo dopo diverse ore l’università ha permesso che la polizia intervenisse per ripristinare l’ordine. Nella serata di mercoledì la direzione ha consentito che le forze dell’ordine sgomberassero gli occupanti anche con l’uso di proiettili di gomma e gas lacrimogeni e ripristinassero l’ordine nel campus eseguendo diverse decine di arresti.
In altre università gli stessi studenti si sono ribellati ai manifestanti, molti dei quali non sono studenti dell’università: ad esempio alla University of North Carolina un gruppo di studenti appartenenti ad una tradizionale confraternita universitaria si sono schierati attorno alla bandiera a stelle e strisce, che come in ogni campus americano che si rispetti svetta in mezzo al cortile principale, confrontandosi fisicamente con i manifestanti che volevano sostituirla con una palestinese: interessante vedere dai video che circolano online che, come spesso accade, i filo-palestinesi coprono il volto con mascherine e sciarpe, mentre i ragazzi della confraternita li hanno affrontati a volto scoperto.
La tensione è in generale altissima, con occupazioni in molti campus universitari da una parte, ma dall’altra una crescita degli interventi da parte delle forze dell’ordine che hanno disperso diverse manifestazioni e permesso agli studenti di riprendere le lezioni regolarmente: il New York Times riferisce di oltre 2mila arresti tra i manifestanti eseguiti dal 18 aprile in quasi 50 università sparse su tutto il territorio nazionale.
Diversi esponenti della sinistra dem, ed in generale del mondo culturale americano, hanno comunque voluto mostrare il proprio sostegno alle manifestazioni filopalestinesi, mettendo in forte imbarazzo il presidente Biden, che ha invitato i manifestanti ad astenersi da violenza e intimidazioni, pur confermando il diritto a protestare. Lo stesso presidente è pressato continuamente sia da sinistra, per muoversi a sostegno della causa palestinese e permettere manifestazioni e proteste, che dalla parte moderata del partito, spaventata dal forte rischio di essere considerati un partito che non tutela ordine e legalità e di perdere perciò finanziatori importanti.
Le autorità accademiche sperano che con il termine dell’anno accademico (previsto in queste settimane) le tensioni si sgonfino, ma temono che le cerimonie di chiusura dell’anno e di festeggiamenti per i laureati possano essere occasione di nuove proteste e tensioni. Indubbiamente la situazione è problematica e se le università sono lo specchio del Paese… Washington, abbiamo un problema!
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