Il tempo sta scadendo, la Terra è in pericolo, non si è fatto abbastanza. Lo ha detto ieri Obama a Glasgow, parlando ai partecipanti raccolti nello Scottish Event Campus di Cop26. Greta Thunberg è ripartita, è rimasta solo l’attivista Vanessa Nakate ad accusare l’ex presidente Usa di “tradimento”. Come in altre occasioni abbiamo raggiunto Chris Foster, trader con tanti anni di esperienza sui mercati finanziari tra Londra e New York. Con lui torniamo sul tema politica e green. Ne avevamo parlato esattamente due anni fa, quando il fenomeno-Greta aveva cominciato a condizionare le agende.
Foster, stavolta non le chiediamo nulla dei mercati. Ci incuriosisce avere un’opinione più di tipo politico.
L’evento più importante di Cop26 non è stato a Glasgow, ma a Washington.
E sarebbe?
Il Clean Electricity Performance Program (Cepp) non c’è più. Era uno dei punti più importanti e decisivi della politica ambientale Usa, l’unico vero atto “rivoluzionario” del piano infrastrutturale dell’attuale amministrazione.
Questo cosa significa?
Lo stralcio è una sconfitta clamorosa del presidente. Biden aveva promesso una svolta verde in linea con le visioni piuttosto radicali del blocco super-progressista del partito. Si preannuncia un doloroso redde rationem a Washington nei prossimi mesi.
In due parole, qual era lo scopo del Cepp?
Il Cepp voleva dire costringere, mediante il pagamento di penali, i produttori di energia elettrica da carbone e petrolio a fare una transizione del 4% annuo dall’energia fossile a quella pulita. L’operazione di Biden è fallita per l’opposizione di un senatore democratico, Joe Manchin (West Virginia). Un voto al Senato fa la differenza al momento, dems e repubblicani sono 50-50.
Perché Manchin si è opposto?
Perché il taglio avrebbe creato un danno occupazionale nel suo stato. E ovviamente possiamo assumere che Manchin abbia subito forti pressioni non solo dai suoi elettori locali, ma anche dalle lobbies energetiche. Manchin e la senatrice dell’Arizona Kyrsten Sinema hanno di fatto sabotato una buona parte del BBB.
BBB ha detto?
Sì, Build Back Better, il mega-piano infrastrutturale che include non solo infrastrutture tradizionali ma anche supporto e trasferimenti a favore di famiglie, sanità e istruzione.
Che valore ha il BBB in Usa?
Estremamente importante. Incoraggio i lettori a fare una ricerca su YouTube o anche solo Google per rendersi conto che BBB è il motto dell’amministrazione Biden. Come “Yes we can” o “Make America great again”. Ha un significato profondo e solo apparentemente si concentra sul fronte ambientale. BBB riassume, pur con una genericità e una superficialità a tratti infantili e grottesche, il piano di riorganizzazione sociale e culturale della nuova America, quella delle due coste che poco tollera deviazioni dal mainstream.
Glasgow, Cop26. Un’opinione in due parole?
Punto uno: la linea ambientalista sta prendendo piede in modo trasversale e sempre più influente. Con aspetti anche positivi, come per esempio il tentativo di supportare paesi emergenti in una transizione economicamente difficile.
E poi?
Punto due: tre paesi hanno il controllo del loro territorio, della politica energetica e hanno i mezzi per fare un commitment di 20-30 anni in modo credibile: Russia, Arabia Saudita e Cina. Li avete visti a Glasgow? E al G20? I due più grandi produttori di energia fossile e il più grande utilizzatore di tale energia non c’erano. Verrebbe da ridere, se non fosse che nessuno ne parla.
Ieri Obama è arrivato d’urgenza a Glasgow, è normale?
Le chiederei io se è normale che il presidente Biden, dopo avere stralciato l’unica misura sostanziale di emission reduction del suo paese, si presenti davanti al mondo a predicare target sempre più ambiziosi… per gli altri! Chiaro che Cina e India non si fanno impressionare, date le premesse.
Mi spieghi Obama a Glasgow.
Due senatori dem (Manchin e Sinema) hanno ricattato il Congresso e sono riusciti a far deragliare l’intero infrastructure plan, ridotto a circa 1 trillion di Usd dai 3 iniziali. L’amministrazione è nel panico. C’è bisogno di Obama per mettere ordine con il suo carisma. Biden ancora una volta ha dimostrato di non avere il controllo del suo partito. Il Congresso è un campo di battaglia, dove aumenteranno i “ribelli”.
Cosa cercano i “ribelli” del partito?
In New Jersey la recente quasi sconfitta del governatore Phil Murphy è il segnale che negli States si sta muovendo qualcosa di importante. In Virginia il seggio del Senato è passato a Glenn Youngkin, un nome che tra l’altro potremmo immaginare per ruoli più importanti in futuro. In molti stati le elezioni si vincono al centro con politiche e narrativa moderate. In altri stati la componente progressista e movimentista farà la differenza.
Dunque, i recenti test elettorali…
Mi hanno certamente sorpreso. Si sta andando oltre quanto avevo previsto sul controllo totale dei media mainstream, pensavo che spianassero a Biden un’autostrada verso la vittoria nelle midterm elections, ma non è così ovvio a questo punto. Oggi conviene a molti delinearsi o come “centrista moderato” o come progressista duro e puro.
Riassumendo, lei lo aveva già detto in modo molto esplicito, c’è un vuoto di potere e ogni congressman-congresswoman è focalizzato sul proprio tornaconto.
Sì, il partito democratico è di fatto una coalizione che mi ricorda il vostro governo Prodi-Bertinotti di una ventina di anni fa.
E Biden chi sarebbe, per fare un parallelo?
Lo sottolineo ancora, Biden ha una truppa potente di fedelissimi al Congresso e negli apparati dello Stato, ma non controlla il paese. E Kamala Harris è scomparsa, “liquefatta” davanti al disastro del south border (confine sud degli Usa, ndr) e all’aumento di tensioni con i giganti della Silicon Valley che non riesce a gestire, nonostante sia stata fatta eleggere dagli amici californiani. Non la fanno più parlare perché fa danni e rovina ogni possibile piano di sostituzione di Biden, in caso di problemi di salute.
E quindi?
L’America non può stare senza presidente. Inoltre, sempre più gente comprende che il paese è allo sbando perché non ha più certezze: giustizia, polizia, difesa, border control. Al Congresso c’è una guerra tra bande e temo che possa allargarsi ad altri corpi dello Stato.
Vuol dire che sta emergendo qualcun altro. Il potere funziona così.
No, invece. Obama era sparito per sei mesi e si è occupato dei suoi affari, letteralmente, ma adesso sta tornando. È costretto a farlo perché la sua costruzione sta crollando. Questa amministrazione è made in Obama, come dicevamo su queste pagine.
Per quale motivo sostiene che il paese non è saldamente nelle mani del partito democratico?
Per due fattori. Il primo è che la sinistra di Alexandria Ocasio-Cortez e amiche – per i curiosi, si veda l’appellativo “the squad” – si è accorta di essere stata sfruttata e si ritrova ora con un piano sociale e infrastrutturale (che è oggi in fase di ratificazione) che è una frazione del progetto iniziale. Pensavano di essere in un paese normale, di negoziare qualcosa con i centristi restando intransigenti sul green. Invece sono state le lobbies a fare l’agenda. E due centristi dem l’hanno cambiata. I progressisti del partito sono furiosi e hanno ragione.
Il secondo fattore?
Anche la politica estera è fuori controllo. È stata per ottant’anni il vero campo d’azione del presidente. Invece hanno sbagliato ovunque, in Afghanistan, in Europa, in Medio oriente.
Non nel Pacifico, però. L’Aukus ha spiazzato tutti.
Sì, ma facendo importanti danni collaterali in Europa, dove è aumentata la visibilità negativa di Biden e dove lo schiaffo alla Francia creerà tensioni crescenti e un ulteriore calo di supporto politico e monetario dell’Ue alla Nato. I due leaders della Nato, Usa e Uk, si sono fatti beffe del leader Ue nella politica estera, Macron… non un buon punto di partenza per riallacciare i rapporti Usa-Ue dopo le sparate trumpiane.
E se prendiamo i repubblicani?
Una buona metà del mondo repubblicano si è radicalizzata e si sta ricompattando intorno a Trump. È un blocco elettorale forte seppur minoritario nel paese, che non viene influenzato dai media mainstream.
Può essere più esplicito?
Non saprei dirlo con precisione. Mi sembra che la polarizzazione della politica americana stia avanzando pericolosamente. In più, crescono le divergenze tra stati, non solo tra elettori. Alcuni governatori hanno parlato anche di secessione e il tema è di aperto dibattito, ad esempio in Texas. Non dimentichiamo che la maggioranza degli stati repubblicani sono abbastanza poveri – Texas e Florida sono clamorose eccezioni – mentre gli stati democratici sono più ricchi ma iper-indebitati (California, New York).
Diciamolo, è un quadro da guerra civile.
Sì, ma nelle forme moderne, non certo nei modi centro-americani degli anni 70 e 80. Nessuno vuole una vera guerra, ma in troppi vogliono controllare la macchina da soldi e potere che è l’America.
Cosa succederà?
Adesso si tratta solo di aspettare e vedere. Ripeto, il punto vero non è la debolezza di Biden, ma che anche Obama sta perdendo il controllo della sua creatura. Adesso deve mettere mano nella guerra tra bande e recuperare spazio e potere. Ci riuscirà? È presto per dirlo.
Nel frattempo l’inflazione sta crescendo.
È un problema serio, ma non ancora abbastanza da creare conflitti sociali. È arrivata l’inflazione pericolosa. Quella che abbiamo visto fino all’altro giorno, tra lo 0 e il 2%, era nel complesso corretta, e i poveri hanno visto effettivamente molti beni e servizi in deflazione per più di un decennio, grazie alla globalizzazione e all’e-commerce – chiamiamolo “Amazon effect”. Ma adesso l’inflazione colpisce soprattutto loro, distruggendo il potere d’acquisto delle famiglie, perché viene in buona parte dal rincaro delle materie prime e degli alimentari. Colpisce l’uso dell’auto, il riscaldamento. Gli americani si stanno impoverendo in maniera rapida.
Cosa può fare il governo a fronte di questa situazione?
Continuare a spendere per finanziare la pace sociale. Soprattutto a soli 11 mesi dalle elezioni di midterm che io prevedevo diventare una marcia trionfale per i democratici. Forse sbagliando, a questo punto.
Chiudiamo il cerchio e torniamo alla Cop26. Una battuta finale?
Lo show del G20 e quello di Glasgow ci dicono che c’è bisogno di una sempre più amplificata e più esasperata emergenza ambientale, e ovviamente anche sanitaria, per permettere a quei governanti di mantenere il potere nei prossimi cinque anni.
(Federico Ferraù)
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