La gravissima crisi istituzionale e sociale che sta sconvolgendo gli Stati Uniti ha altrettanto gravi risvolti internazionali, che giustificano la elevatissima attenzione riservatale da analisti, commentatori e media. Al centro dell’attenzione sono, inevitabilmente, i tragici eventi di Capitol Hill e le discussioni sulle responsabilità a tal proposito di Donald Trump. Tuttavia, la crisi ha origini molto più profonde e Trump, pur avendola estremizzata, sembra esserne più un effetto che una causa. Infatti, diversi suoi critici stanno spostando l’attenzione da Trump al cosiddetto “trumpismo”, e anche qui Trump sembrerebbe più un catalizzatore che un creatore.



Nella diatriba non ancora chiusa su possibili brogli elettorali, molti commenti, per esempio sui media italiani, hanno sottolineato il prevalere del voto popolare a favore di Biden su quello per Trump, scarto già esistente pro Hillary Clinton nelle elezioni del 2016. Di per sé è un’osservazione marginale, visto il sistema elettorale americano, complicato e un po’ astruso, soprattutto per chi è abituato a un sistema proporzionale. È interessante, però, guardare più da vicino questi numeri.



Le presidenziali negli Stati Uniti sono state sempre caratterizzate da una scarsa affluenza al voto, nelle ultime elezioni compresa tra il 50% e il 60% degli aventi diritto. In queste ultime elezioni la partecipazione è salita invece al 66,7%, la percentuale più alta da un secolo a questa parte. Si potrebbe pensare a una eccezionale discesa in campo degli elettori democratici preoccupati dalla possibile riconferma di Trump, ed in effetti Biden ha ricevuto più di 81 milioni di voti, (51,3%), storicamente il risultato più alto ottenuto da un candidato. Nel 2016, Hillary Clinton aveva totalizzato un po’ meno di 66 milioni di voti, il 48,2%, contro i quasi 63 milioni del vincitore Trump (46,1%). In queste elezioni, Trump ha avuto un po’ più di 74 milioni di voti (46,9%), cioè il secondo risultato nella storia di queste elezioni.



Anche da questi numeri è evidente la progressiva polarizzazione tra gli elettori, indicata anche dalla minore incidenza dei candidati minori: un po’ più del 6% nel 2016, solo il 2% nel 2020. Molti commentatori hanno posto in rilievo come questa volta, accanto a quelle tradizionali tra stati, sia emersa la divisione tra città e campagna. È quanto nota un’interessante analisi della NBC, dove si fa anche notare che la differenza di circa 7 milioni nel voto popolare a favore di Biden è concentrata praticamente in due stati: California e New York.

È difficile non ritenere inutile e dannosa la pervicace resistenza di Trump ad accettare il risultato elettorale, così come è difficile negare una sua responsabilità quanto meno oggettiva nei fatti di Capitol Hill. Ed è estremamente inquietante la prospettiva di scontri ancor più violenti in occasione del giuramento di Biden, ma è pericolosamente riduttivo limitare il rischio a quello, peraltro reale, delle milizie dell’estrema destra. Anche a sinistra vi sono organizzazioni armate che hanno causato gravi disordini anche lo scorso anno e che si erano già distinte nel contrastare in modo non pacifico il giuramento di Trump nel gennaio 2017.

Al di là della sua correttezza costituzionale, il nuovo tentativo di impeachment di Trump non contribuirà a far calare la tensione, rendendo giustificato il non estremo entusiasmo di Biden nei confronti dell’iniziativa. Se quindi può essere giudicato negativamente il persistente mantenimento della denuncia di brogli, non si può tuttavia dimenticare la guerra condotta dai democratici dopo l’elezione di Trump. Nel 2016 non si è parlato di schede fasulle o conteggi truccati, ma addirittura di collusione con il nemico e alto tradimento: l’elezione di Trump era attribuita all’intervento della Russia di Putin e il neopresidente doveva essere rimosso e condannato.

È probabile che i russi abbiano cercato di influenzare le elezioni, e gli americani non sono di certo degli sprovveduti in queste operazioni, ma è molto più difficile credere che siano riusciti a far eleggere un “loro Presidente”. Ed infatti il “Russiagate” si è risolto in nulla, ma poi Trump ha a sua volta aperto un “Ucrainagate” a carico di Biden, accusato di aver spinto il governo ucraino a far assumere il figlio nella società di un oligarca locale. Invece, il risultato è stato il primo impeachment di Trump, passato alla Camera dei Rappresentanti, a maggioranza democratica, ma bloccato dal Senato dominato dai repubblicani. Ora la situazione appare più complessa, dato che parte dei repubblicani, seppure solo dieci, hanno votato l’impeachment.

Anche a chi non ama particolarmente gli Stati Uniti, non credo possa far piacere vedere questo Paese assimilato al Venezuela di Maduro o alla Bielorussia di Lukashenko. E le responsabilità parrebbero proprio, una volta tanto, bipartisan.