MINNEAPOLIS – Non solo Minneapolis: Atlanta, Oakland, New York, Los Angeles, Phoenix, Las Vegas, Detroit, Washington DC; le proteste sono ovunque. La morte, più giusto chiamarla l’uccisione di George Floyd, ha liberato un’ondata di malessere esistenziale portando nelle strade di tutte le grandi città americane migliaia di volti mascherati. Per alcuni a causa del covid, per altri col chiaro intento di coprire la propria identità, o forse per mascherarne l’assenza. Un frammento di volto in una vita frammentata. Perché bisogna chiamare le cose con il loro nome, e come ha avuto il coraggio di dire Tim Waltz, governatore democratico del Minnesota, quel che sta succedendo “non ha più niente a che fare con l’omicidio di George Floyd”.
Anche il sindaco di Minneapolis, Jacob Frey, democratico pure lui, nell’invocare il rispetto di un coprifuoco che quasi tutti i manifestanti hanno scelto di ignorare, si è sentito in dovere di dire ai suoi concittadini e a tutto il paese che le proteste “non sono più questione di diritto di parola, sono questione di violenza”. E per quanto Frey possa essere un “radicale sinistrorso privo di leadership” – come lo ha definito Donald Trump con la sua solita acida saccenza – credo che la sua affermazione rispecchi la realtà. No, quello che sta succedendo non ha più a che fare con il disumano omicidio (colposo o preterintenzionale che sia) del povero Floyd.
Non è più una questione di razzismo. Sono vite venute su male, frammentate e quindi sempre sul punto di lanciare qualche scheggia impazzita. Quelle dei violenti “street fighting men” che mettono le città a fuoco e fiamme come quella di Derek Chauvin, il disgraziato poliziotto di Minneapolis. Anche la Cnn, antitrumpiana ad oltranza e per partito preso, sempre pronta a schierarsi con i più deboli, l’altra sera ha vacillato accusando un certo smarrimento nel giustificare quel che andava accadendo ad Atlanta, in Georgia. Sorpresa, interdetta, incapace di giustificare l’ingiustificabile assalto di alcuni manifestanti alla propria casa madre, la sede centrale dell’emittente televisiva.
Non c’è neanche bisogno di tirar fuori Martin Luther King e la sua condanna del “returning hate to hate” per capire che non è questa la strada. Lo sanno e lo capiscono tutti: coloro che protestano per vero amore, perché vedono il loro tentativo avvelenato dal seme della violenza, i “falsi manifestanti”, perché costoro sono lì solo per il brivido rabbioso del lottare, per l’ebbrezza del casino, i poliziotti, spaventati ed incattiviti dal sentirsi indiscriminatamente messi alla gogna.
Certamente bisogna fermare questa emorragia di violenza. Ma non sarà la National Guard, questa forza armata tutta americana fatta di cittadini-soldati, a risolvere il problema. Potrà riportare l’ordine per le strade, metter fine a saccheggi ed incendi, ma non sarà capace di ricostruire quel volto mezzo nascosto che grida malamente, brutalmente il proprio bisogno, senza sapere, senza capire di cosa questo bisogno sia fatto. Intanto un’altra notte di caos e furia.
Viene in mente il nostro ultimo New York Encounter, a metà febbraio, “Crossing the Divide”, attraversando le divisioni. Tre mesi che sembrano tre secoli. Il coronavirus appariva come un problema altrui, e neanche troppo serio, e soprattutto le testimonianze raccolte mostravano un possibile cammino, quello del miracolo della vita che cambia, della vita che può effettivamente cambiare. Se avete un’ora andatevi a guardare Daryl Davis e Christian Picciolini, “A Paper Thin Distance”.
Oggi quel cammino appare nuovamente ingombro di feroce inimicizia, impraticabile. Eppure resta l’unica strada percorribile. È il cammino dell’unità della persona. Non mi piace parlare di razzismo perché si scivola presto nell’ideologia, si rischia sempre di pensare che in fondo io non c’entro. Prima dell’odio all’altro viene l’odio a sé, l’origine dell’odio verso l’altro è la mancanza di un vero amore a sé. La violenza nasce da lì, e poco o tanto ci morde tutti. È questo che vediamo in televisione questi giorni. La storia di Christian Picciolini lo mostra in maniera inequivocabile.
Per noi credenti ieri era la giornata del dono dello Spirito che entra in questo mondo perché la nostra vita diventi un operoso principio di amore.
Non c’è altra Speranza e non c’è giustizia più grande. Ed è questa la battaglia che siamo chiamati ad ingaggiare sulle strade della nostra vita quotidiana.
God Bless America!