È scontro aperto tra Bruxelles e AstraZeneca. Come ha riportato ieri il Corriere della Sera, c’è un ultimatum formale – già scaduto – dell’Ue alla multinazionale anglo-svedese perché ponga rimedio alle sue violazioni contrattuali (secondo l’Ue) sull’approvvigionamento di vaccini.
Ma è l’Europa ad avere sbagliato tutto, con una serie di errori che lasciano a bocca aperta. “Se si dovesse andare allo scontro giuridico sarà un caso interessante di lawfare (uso della legge come arma di guerra, ndr) sanitario” ci spiega Paolo Quercia, docente di studi strategici nell’Università di Perugia. Quercia fa le sue considerazioni sulla base del contratto Ue-AstraZeneca, ad oggi solo parzialmente reso pubblico. La commissione von der Leyen ha mostrato una debolezza strategica sconcertante: si è seduta ad un tavolo in cui a dare le carte era la multinazionale. E adesso Bruxelles dovrà chinare la testa: sarà AstraZeneca a decidere quanto siero arriva e quando.
C’è un ultimatum ed è già scaduto, secondo quanto riportato dal Corriere. È molto probabile che si aprirà una battaglia legale. Se lo aspettava?
Onestamente no. Ma temo che non sarà una guerra, piuttosto una lunga guerriglia giudiziaria dall’esito incerto. Ci muoviamo su un terreno senza precedenti giuridici. Se si dovesse andare allo scontro giuridico sarà un caso interessante di lawfare (uso della legge come arma di guerra, ndr) sanitario.
Perché?
Perché tra gli Stati membri dell’Unione Europea e la multinazionale farmaceutica AstraZeneca si è creato un rapporto asimmetrico. Su una partita importante come quella dei vaccini, gli Stati europei erano riusciti a fare uno sforzo importante, quello di mettere da parte i propri interessi nazionali e presentarsi sotto la bandiera dell’Ue alla trattativa con le multinazionali farmaceutiche. Ma poi, vinta la partita della cooperazione tra gli interessi degli Stati, pare che si sia persa la partita della trattativa con le multinazionali. Torniamo alla storia del gigante dai piedi di argilla.
Lei ha fatto una ricognizione del contratto nella versione resa pubblica, quella con gli omissis. Che idea si è fatto?
Quel poco di analisi strategica che si può fare in una materia così complessa con testi in buona parte ancora ignoti all’opinione pubblica. Ad ogni modo, da un’analisi del contratto è possibile sottolineare alcuni aspetti critici che quantomeno ben evidenziano la debolezza strategica con cui la Commissione europea e gli Stati membri si sono trovati seduti al tavolo delle trattative con la multinazionale farmaceutica anglo-svedese. Ovviamente bisogna esserci per esserne certi. Ma a me pare che sia stata AstraZeneca a dare le carte.
“Debolezza strategica”, “rapporto asimmetrico”. Di che cosa stiamo parlando?
Di una Unione che avrebbe dovuto cercare di tutelare ad ogni costo la salute e la sicurezza dei suoi cittadini e che per far questo avrebbe dovuto adottare un approccio molto più strategico e geopolitico e meno tecnico-sanitario. La partita dei vaccini è in primo luogo una partita di potere internazionale. Se gestita male avvierà un enorme processo di redistribuzione della potenza. Gli Stati nazionali si sono dimostrati molto pavidi ed hanno lasciato la partita in mano a direzioni tecniche della Commissione europea. Ma su questi terreni apparentemente tecnici si giocano, lontano dal mondo della sovranità politica e dell’opinione pubblica, partite rilevantissime.
Può spiegare meglio questo punto?
Ormai ci muoviamo da anni in una dimensione internazionale caratterizzata sempre più dalla fluidità del concetto di sovranità. Nominalmente ancora intestata agli Stati, questi hanno sempre più difficoltà ad esercitarla all’interno di ambiti troppo tecnici e complessi che cadono al di fuori delle loro competenze e conoscenze. In questo processo di sgocciolamento della sovranità, gli Stati – e dunque i cittadini – perdono una buona parte dei propri poteri a beneficio di attori privati o non statuali ma anche di altri Stati che sanno come giocare il mercato in chiave politica.
Attori privati come le multinazionali, come Big Pharma. Dunque siamo di fronte a due controparti delle quali una è più debole – gli Stati – e l’altra più forte. Ci si aspetterebbe il contrario. Questa situazione che cosa comporta?
Le multinazionali fanno il loro mestiere, che in teoria dovrebbe tornare utile agli Stati di origine delle grandi aziende. Ma è un rapporto complesso a causa della vastità degli interessi economici coinvolti e del potere di conoscenza ed informativo accumulato da queste grandi aziende. La loro dimensione rende difficile un semplice rapporto di mercato. Ricordiamo che gli stessi Stati traggono dalla ricchezza la propria potenza. Il rapporto può velocemente divenire un rapporto di forza, un conflitto economico dove l’obiettivo è la subordinazione o la coercizione della volontà dell’altro. Spesso attraverso meccanismi tecnici, legali o economici.
Ma cosa c’entra questo con il contratto di fornitura tra l’Ue e AstraZeneca?
Analizzando il contratto reso parzialmente pubblico dalla Commissione, e che porta la data del 26 agosto 2020, numerosi punti mostrano con una certa chiarezza come i rapporti di forza erano a vantaggio della multinazionale farmaceutica. Gli Stati europei appaiono essere arrivati alla trattativa strategicamente impreparati e privi di alternative, sia per non aver avviato piani comuni di produzione autonoma di vaccini, sia per aver escluso altri fornitori per motivi geopolitici.
Cosa può dirci del principio del Best Reasonable Effort e della sua mancata applicazione?
È attorno a questo punto anomalo che ruota tutta l’asimmetria del contratto, che indica chi teneva il coltello dalla parte del manico e, probabilmente, chi ha fornito la bozza del contratto e l’armamentario giuridico. Il fatto che l’obbligo di AstraZeneca di produzione delle dosi pattuite non sia qualificabile come un obbligo in senso pieno contrattualmente assunto, ma piuttosto come un molto più debole impegno a dover utilizzare il “miglior ragionevole sforzo” (Best Reasonable Effort) è uno degli aspetti più singolari e per certi versi sconcertanti.
Per quale motivo?
Questo concetto chiave, che ricorre molte volte in un contratto già molto debole di per sé, viene definito in maniera molto vaga nell’art. 1.9. La definizione dello “sforzo ragionevole” dovrebbe essere deducibile dal paragone con gli sforzi che farebbe un’altra azienda simile per grandezza ed infrastrutture nella produzione dei vaccini. Un qualcosa di indimostrabile giuridicamente e che lascia di fatto indefinito il concetto principe su cui fa perno tutto il contratto che lega l’Europa con AstraZeneca e che dovrebbe definire il livello di impegno produttivo a cui l’azienda è vincolata.
In concreto che cosa significa?
Che la dicitura scelta nell’art. 1.9 del “Best Reasonable Effort” è un ambiguo compromesso tra due altre clausole a volte utilizzate nella contrattualistica internazionale. Quella meno impegnativa del reasonable effort e quella, comunque ambigua e che non impone comunque un obbligo di tipo assoluto, del best effort. Insomma l’azienda si è voluta tenere, ed evidentemente ha potuto farlo, le mani libere anche rispetto a clausole comunque non imperative.
Dunque un vero e proprio obbligo di fornire le dosi ordinate dall’Unione Europea non esisterebbe ai termini del contratto?
Parrebbe proprio di no. E questo proprio grazie all’adozione del concetto giuridico di “best reasonable effort”, proprio degli ordinamenti di common law ma calato qui in un contratto di un’azienda anglosassone con Paesi non di common law e subordinato alla legge belga. Altro paradosso. Ma c’è di più.
E sarebbe?
L’assenza di un obbligo rigido di fornitura dei vaccini è confermata dal fatto che la famosa clausola di “Best Reasonable Effort” compare anche nella relativa dichiarazione di garanzia (art. 13.1, lett. d), cioè nella clausola che dovrebbe definire l’assunzione di responsabilità contrattuale per le parti firmatarie dell’accordo e la cui violazione costituirebbe il presupposto per la richiesta di risarcimento da parte dell’Unione. Stessa aleatorietà incombe sulle dosi supplementari rispetto a quelle iniziali, per le quali l’azienda non assume alcun obbligo di produzione, se non quello di valutare in buona fede le richieste aggiuntive. (1 – continua)
(Federico Ferraù)
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