I fatti accaduti la scorsa settimana in Venezuela si sono ripercossi in tutta l’America Latina, generando profonde incertezze riguardo al futuro del Continente. Il ritorno di Guaidó alla Presidenza ad interim dell’Asemblea Nacional dopo il farsesco tentativo di Maduro di appropriarsi dell’istituzione dove continua a essere minoranza (pare ormai accertato dopo che la Russia ha premuto in questo senso) ne ha rafforzato il potere mettendo in ridicolo quello del dittatore che, seppur goda ancora dell’appoggio di gran parte delle Forze armate, comincia a mostrare delle crepe profonde a livello istituzionale e politico. È chiaro che un regime come quello di Caracas possa mantenersi in vita solo con la forza, elemento che negli ultimi tempi (complice anche una opposizione divisa e debole) ha dissuaso la popolazione a manifestare intensamente come già era successo non tanto tempo fa. Ma appunto questa forza si mantiene perché un eventuale cambio ai vertici del potere significherebbe per i militari che li supportano la perdita di succose provvigioni sia nel controllo di parte dello Stato che del narcotraffico che, ricordiamolo, rappresenta un potere nascosto (ma non troppo).



Che ricambio potrebbe esserci per permettere al Venezuela di ritornare una democrazia? È a questo punto molto difficile a dirsi, perché gli interessi economici, come ripetiamo, saldano la dittatura: ma fino a quando? Perché in effetti continuando di questo passo un’economia già distrutta in ogni senso con un’inflazione talmente forte da rendere aleatorio diffonderne i numeri precipiterebbe il Paese in un caos totale… e pure, a questo punto, un bel problema per una Russia che, pur spremendo le ricchezze venezuelane fino all’ultima goccia, non potrebbe mai sostenere una normalizzazione (non ha neanche tutti i mezzi per provocarla), anche per l’effetto dell’embargo internazionale che ormai colpisce il Venezuela.



A questo punto si ritornerebbe ad aver bisogno di una trattativa per gestire i necessari cambi di potere, ormai arrivati al punto di essere necessari: mossa che potrebbe partire da Messico, Uruguay e Argentina, Paesi non allineati nell’embargo anche politico imposto dalle condanne che non solo l’Onu ma pure l’Osa (l’Organizzazione degli Stati americani) hanno ribadito in questi giorni di condanna al fallito putsch di Maduro. In particolar modo l’Argentina, dopo il ritorno del peronismo kirchnerista al potere (con misure economiche tali da far impallidire quelle attuate dal precedente Governo di Macri e che hanno colpito duramente la classe media e l’intero settore produttivo del Paese) ha estremo bisogno degli Usa per risolvere almeno la ristrutturazione del suo debito con il Fmi. Per ottenerne l’appoggio deve inventarsi qualcosa e allora ecco la proposta (ormai non tanto velata) di farsi carico di un’intermediazione che possa portare al tanto sperato cambiamento democratico venezuelano.



Pur se Alberto Fernandez, il fiammante Presidente argentino, ha condannato i fatti della settimana scorsa, si è astenuto dal confermarne la posizione di fronte all’Osa e, ciliegina sulla torta, ha pure esautorato come Ambasciatore a Buenos Aires quella che invece Macri aveva riconosciuta come unico, Elisa Trotta, nominata da Guaidó. Politica ambigua, quindi, ma anche passaporto per poter dialogare con Maduro un suo eventuale ritiro a Santo Domingo (dove possiede una proprietà favolosa) e poter convincere i vertici militari che lo circondano con la carta di un’amnistia generale. Provocando un ricambio che possa nel tempo arrivare alle tante sospirate elezioni.

Certo gli ostacoli a questo piano esistono, ma attualmente (anche per l’esaurimento dell’arco di “ambasciatori” della causa) altro di disponibile non c’è, anche perché lo scacchiere mondiale è alquanto complicato dalla questione Iran-Usa ed è interesse sia degli statunitensi che dei russi non complicare troppo le cose e cercare di risolvere la questione venezuelana politicamente nel minor tempo possibile, prima che un’emergenza economica scoppi con conclusioni che è difficile prevedere.