Iniziamo oggi a raccontare alcuni protagonisti del mondo del turismo italiano, le loro fortune ma anche gli ostacoli che hanno dovuto superare e che a volte si sono rivelati troppo complicati per le loro forze. Sono storie che dicono di donne e di uomini, ma anche di epoche che hanno caratterizzato la trasformazione delle vacanze in turismo, l’evoluzione dell’industria italiana del settore che oggi vale il 13% del Pil.



Cominciamo con tre puntate dedicate a Enrico Keppel, un “grande vecchio” del leisure made in Italy, un viaggiatore del mondo e un innamorato della Sicilia, lui mezzo olandese, trapiantato a Milano, vissuto in Indonesia. Davvero un capitano coraggioso, con grande spirito e volontà d’assumersi tanti, a volte troppi, rischi d’impresa.



L’intervista galeotta

Gli anni Venti del secolo scorso furono anni di una lirica fatta di opere che non parlavano italiano. Tranne due eccezioni: Turandot (1926) che Giacomo Puccini aveva lasciato incompiuta alla morte, due anni prima (fu poi Franco Alfano a completarla), e Doktor Faust (1925) di Dante Michelangelo Benvenuto Ferruccio Busoni, grande genio pianistico, anche questa lasciata incompleta alla morte dell’autore, nel ’24. Ma in quel decennio si contano almeno diciannove opere significative, firmate ad esempio da Prokofiev, Schonberg, Strauss, Ravel, Stravinsky, Sostakovic.



A Napoli, città di belcanto e mélo, gli artisti non faticavano a scritture nelle compagnie di giro e di stanza, che trovavano spazio soprattutto nel San Carlo, il gigante della lirica, ma anche nel Sannazaro, nel San Ferdinando, o al Mercadante, al Bellini, perfino al Trianon, dedicato per lo più alla canzone partenopea. Qui aveva lanciato i primi acuti il soprano lirico napoletano Aurelia Lauro, che da Napoli in breve arrivò a cantare nei principali teatri italiani, fino a Milano, dove si trovò in procinto di un debutto alla Scala. Ma erano tempi difficili, e il peso dei compensi incideva sulle scelte, soprattutto dal punto di vista degli impresari, più attenti ai contratti che alla carriera artistica dei propri assistiti. Fu così che l’impresario della Lauro la convinse a rinunciare alla Scala per accettare invece un contratto, certamente più remunerativo, per una tournée in Oriente. Una tournée destinata a cambiarle la vita.

In quegli anni, l’odierna Giacarta era ancora Batavia, capitale delle Indie Orientali Olandesi (oggi Indonesia). Era stata fondata dai coloni nel 1619 sulle rovine dell’antica Jayakarta, vero snodo fondamentale per la Compagnia olandese nei traffici con l’Asia. A Batavia nel 1925 si trovava per lavoro Jacob Herman Keppel Hesselink, un ingegnere che nel tempo libero scriveva articoli di genere sulle testate locali, come il Bataviaasch Nieuwsblad o il Soerabaijasch Handelsblad, che aveva la sua sede principale a Surabaya (Soerabaja sotto la dominazione olandese), un giornale in lingua olandese che visse fino al 1942, quando fu costretto alla chiusura dopo l’occupazione giapponese. Proprio su un giornale Keppel lesse di quella soprano italiana che stava mietendo successi, replica dopo replica, un po’ ovunque in quelle regioni orientali. Una giovane donna, che già dalle foto appariva bellissima, piena di fascino e ammiratori: un soggetto indubbiamente adatto per un’intervista. 

Fu così che Keppel partì da Batavia per raggiungerla in una delle tappe della sua lunga tournée, a New Delhi, dove però l’intervista si trasformò in qualcosa di diverso, in un rapporto immediato e intenso. Aurelia si ritrovò incinta, ma non abbandonò per questo la sua tournée, che si concluse l’anno successivo, nel 1926, con la messa in scena a Shanghai. Subito dopo, i due innamorati partirono per Amsterdam, dove il 17 febbraio 1927 nacque il figlio Angelo. 

Da uno sci club al primo villaggio in Sicilia

Mi chiamo Keppel Hesselimk Hendrik Angelo, detto Enrico. Sono nato ad Amsterdam, Olanda, padre olandese e madre italiana. Ma la mia famiglia si trasferì quasi subito a Batavia, Indie Olandesi: lì siamo rimasti fino al 1932, cinque anni che mi furono sufficienti per imparare la lingua malese. Avevo però qualche problema di ossificazione, quello che un tempo si diceva “rachitismo”, così i miei decisero che forse quel clima non mi aiutava, e si decisero a ripartire, stavolta per l’Italia. Andammo a Milano, in una casa in un piano rialzato di via Eustachi, vicino a corso Buenos Aires. Per me, non furono tempi facili: io parlavo malese, soprattutto con la tata indonesiana che ci aveva seguito, e i rapporti con gli altri bambini della mia età non filavano sempre lisci. In Italia il mio nome, Hendrick, era diventato Enrico. 

Anche a Milano, però, l’aria non era particolarmente adatta per il mio rachitismo, e così ci trasferimmo ancora, stavolta a Vimercate, un piccolo centro della Brianza, meno smog e meno traffico. Lì mi iscrissi al collegio Niccolò Tommaseo dove rimasi per tutte le cinque classi elementari. Dopo di che, nuovo ritorno a Milano, dove frequentai l’Istituto Commerciale G. Schiapparelli: mi diplomai ragioniere il 25 giugno 1945, giusto mentre gli alleati stavano liberando la città. La guerra stava finendo, quella guerra che durante i bombardamenti su Milano mi aveva visto girovagare al fianco di mia madre fino in Toscana, da una prozia a Firenze, poi a Castefiorentino, da altri parenti, mentre mio padre era scomparso, partito per chissà dove. Anche in Toscana, però, non eravamo sicuri, gli scontri si susseguivano ovunque, quindi tanto valeva tornare a Milano, nel nostro appartamento, che ritrovammo danneggiato dalle bombe.

Con il diploma in tasca, mi iscrissi alla Bocconi. Un parcheggio che durò quattro anni, senza mai pagare le tasse, visto che ufficialmente ero sempre un cittadino olandese. Non erano anni facili: dopo il ’45 mi inventai qualcosa per racimolare un po’ di soldi, facevo borsa nera comperando sigarette e coperte dagli americani e rivendendole. Andai avanti così per due anni. Nel ’47 trovai lavoro all’Associated Press, negli uffici milanesi di piazza Cavour: vendevo a giornali e riviste (compreso il Corriere della Sera, me le comprava Dino Buzzati) le foto di avvenimenti speciali nel mondo e in Italia (compresa una di De Gasperi che faceva la comunione), foto che arrivavano per aereo da Parigi.

L’anno successivo accettai una proposta del Consolato Olandese: ero la persona giusta per il nuovo ufficio di rappresentanza della Società Marittima Olandese di Genova, che stava aprendo a Milano. Il mio incarico era reperire clientela che doveva esportare e indurla quindi a usare le navi olandesi. Avevano ragione, ero la persona giusta. Nel giro di due anni divenni il direttore dell’ufficio e mi spostavo continuamente tra Milano e Genova per relazioni e aggiornamenti. Fu in quel periodo che cominciai ad andare a sciare in montagna nei fine settimana, sfruttando i pullman di club milanesi. E probabilmente emerse proprio in quelle gite la mia indole imprenditoriale. Le trasferte da Milano in montagna stavano avendo un buon successo, così pensai di creare un mio club per sciatori e organizzarle in prima persona. Nacque il Club Est Milano, che misi in piedi con l’aiuto di due soci (Rossini e Cervini), e in breve organizzammo i nostri pullman per i weekend sulla neve: in pochi anni i soci iscritti al CEM arrivarono a quota trentamila.

Immaginando di poterlo promuovere proprio tra quei soci, nel 1950 aprii anche un negozio di articoli sportivi in via Vitruvio (con un altro socio, Giancarlo Nali): era il Na-Ke Sport, ed ebbe subito un gran successo. Il lavoro mi assorbiva completamente: avevo lasciato anche la Bocconi, dopo sei esami all’attivo, suscitando la disperazione di mia madre. Ma il negozio non era certamente un punto d’arrivo: cedetti la mia quota a Nali e organizzai la fusione del mio CEM con un altro club, lo Scarpone. Nacque il Club Set, con un potenziale di 60 mila soci, davvero così tanti da spingermi ad aprire una vera agenzia di viaggi e tour operator, Mondorama, con charter settimanali su Londra e anche viaggi intercontinentali (verso India, Giappone, America), che mi vedevano impegnato in prima persona, come accompagnatore dei gruppi.

Ma ancora non bastava. Iniziai ad occuparmi anche di gestioni alberghiere, insieme ad alcuni amici, con i quali si battevano le coste dell’Italia Meridionale, soprattutto tra Calabria e Sicilia. Arrivammo per caso nel comune di Gioiosa Marea, un litorale fantastico, all’epoca praticamente deserto. Domandammo informazioni al sindaco, Basilio Cusmà Piccione: poteva indicarci qualche buon terreno sul mare dove poter investire e realizzare una struttura turistica? Fu lui a portarci su una baia, giusto di fronte al roccione di Capo Calavà, un’incredibile vista sulle Eolie. Il terreno era deserto, se si eccettuano una mucca e due asini. Era quello che stavamo cercando. Andammo immediatamente dal proprietario della terra, l’ingegnere Luigi Batolo, e lo raggiungemmo subito per chiedergli se fosse disposto a vendere.

Fu una doccia fredda: l’ingegnere ci disse che non aveva nessuna intenzione di cedere il terreno. Fortunatamente intervenne il sindaco, facendogli presente il dovere di aiutare la comunità gioiosana. Se l’apertura di un resort poteva significare un posto di lavoro per tante persone e un nuovo impulso turistico per tutto il territorio, beh allora doveva vendere. Batolo si convinse, ma non aveva idea del valore di quei lotti. Così ci rivolgemmo al contadino che si occupava del terreno, Pietro La Monica, per un suo parere: 300 lire al metro per circa 60.000 metri quadrati. Il proprietario pensò bene di aumentare, e ce ne chiese 500, ma accettammo subito: con altri soci avevo raccolto un capitale di 100.000 lire, per un acconto bastavano. Una volta rientrato a Milano, uscii da Mondorama, incassando la mia quota di capitale e fondai l’agenzia di villaggi Keppeltour in piazza Duca d’Aosta oltre alla società Club Aquarius, con la quale intendevo gestire il costruendo villaggio e trovare la clientela. Tornato a Calavà, comprai 12 tucul dall’ingegnere Romano di Messina, e li sistemai a Calavà. Nel 1968 era tutto pronto e registravo già una bella clientela: i soldi cominciavano ad arrivare.

Quattro matrimoni, tre separazioni e…

Mi sono sposato quattro volte, ma tre matrimoni sono finiti male, mentre il quarto funziona ancora benissimo.

Il primo nel 1952 con Maria Cristina Santoro, una triestina classe 1930: furono nozze premature, da incoscienti. Tre anni dopo ho potuto annullare il vincolo davanti alla Sacra Rota, grazie all’intercessione di mons. Pietro Spada. Al secondo, nel 1965, avevo già 38 anni, e mia moglie Gabriella Sartori detta Lella appena 23. Non potevamo avere figli, così nel 1973 adottammo un bambino i cui genitori erano letteralmente scomparsi. L’abbiamo chiamato Andrea. Ma Lella, nel frattempo, non era stata esattamente una moglie fedele, e non s’era accorta di essere incinta, non grazie a me, ma di un animatore, che peraltro lavorava per me. Quel bambino nacque lo stesso anno dell’adozione, nel ’73: io l’ho riconosciuto, gli ho dato il mio cognome, e l’abbiamo chiamato Alessandro. Il matrimonio però era distrutto, ottenni il divorzio, ma la Lella l’ho trattata bene: le ho trovato un posto di lavoro a Lugano, dove avevo aperto un’agenzia, e le ho acquistato una casa a Lugaggia, una piccola frazione di Capriasca, in Canton Ticino, distretto di Lugano. Lella è sempre vissuta in Svizzera, ma recentemente ha deciso di vendere la casa e andare a vivere in Brasile, dove s’è trasferito Alessandro. Andrea invece oggi vive e lavora in Brianza.

Il terzo matrimonio è stato con Giovanna Spina, 24 anni meno di me, conosciuta a Capo Calavà nel 1980. Siamo stati bene, molto bene per i primi tre anni. Dopo però sono iniziati i problemi: lei si assentava continuamente, voleva andare sempre in Kenya, dove avevo una casa, ma sicuramente non era solo il mal d’Africa, avevo fondati sospetti di un tradimento. Le liti diventavano frequenti, finché chiesi un altro divorzio, che mi costò caro. Lei per concedermelo pretese la villa in Kenya, i mobili e le suppellettili più costose della casa di Lesmo, e tanti, tanti soldi.

Verso il 1985 ho avuto poi una parentesi di circa due anni, in cui andai a convivere con Teresa Clerici, conosciuta a Calavà. Aveva dieci anni meno di me, e ci divertivamo parecchio, viaggiando spesso tra Parigi e Olanda. Ma la convivenza terminò senza che il rapporto si evolvesse in qualcosa di più serio.

Nel 1994, proprio in Kenya, conobbi Francesca Di Marco, aveva 43 anni, 24 meno di me. Andammo a convivere, per un breve periodo, e subito dopo ci sposammo. Sono passati ormai quasi 27 anni ma siamo ancora saldamente insieme.

(1 – continua)

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI