Perché, come, quando, un fatto di cronaca s’inserisce nella storia contemporanea di un paese? Mistero. Come, quando, perché una serie di “impressioni” può divenire una riflessione dai riscontri più vasti? Mistero. In questo caso, il piccolo mistero di due giornate a Roma.

Alla stazione dei carabinieri di Piazza Farnese, mattina di sabato (27 luglio). Caldo afoso, sole a picco. Una fila di mazzi di fiori appoggiati ai piedi della parete esterna. Alcuni carabinieri alla porta, ma non in formazione ufficiale: semplicemente entrano ed escono, con aria un po’ smarrita. Accettano volentieri una stretta di mano. Come i poliziotti e i vigili del fuoco vicino al Ground Zero di Manhattan quand’era ancora fresco (cioè, ancora polveroso e fumoso) il ricordo dell’assalto; i quali accettavano volentieri piccoli segni come una stretta di mano, eppure avevano l’aria un po’ distante, come assorti in qualcosa di più grande e complesso. Ma – a parte le ovvietà (diverse dimensioni dell’evento, immediata storicizzazione delle Torri Gemelle) – qual era la differenza che si avvertiva con precisione (altro che impressioni!) fra questi due tipi di strette di mano?  Dietro ai guardiani di Manhattan si sentiva chiaramente (si toccava con mano, come suol dirsi) la solidarietà di tutto un popolo, ovvero di tutta una nazione (come agli americani è ancora permesso dire).



Diversa, invece, l’atmosfera dietro ai guardiani di Roma. Intorno ai quali si poteva, per così dire (e senza scuse per la metafora), tagliare con il coltello una certa freddezza, non soltanto della nazione (come agli italiani non è più permesso dire), ma anche della città. Come se quest’uomo si fosse “fatto ammazzare” (brutalità del linguaggio corrente); e come se fosse appartenuto a una comunità che dovrebbe continuamente giustificare la propria esistenza.



Alla stazione dei carabinieri di Piazza Farnese, mattina di domenica (28 luglio). Cielo grigio, pioggia leggera. I mazzi di fiori sono ancora lì, anche se non sembra che la loro fila si sia allungata; i carabinieri ancora entrano ed escono a intervalli. Ma c’è qualcosa di diverso. Un uomo non più giovane, con una rada corona di capelli intorno al capo, vestito semplicemente in maglietta e pantaloni: si vede che appartiene, senza tante etichette socio-politiche, al popolo. Sta ritto in piedi: immobile, silenzioso, isolato nella piazzetta col viso rivolto alla porta d’ingresso. È chiaro (certuni direbbero: imbarazzantemente chiaro) che sta pregando.



Tornando alle domande d’inizio: se si può (è solo una modesta proposta) inserire questo fatto di cronaca romana nella storia moderna del paese, ciò è possibile in quanto esso con i suoi addentellati è concretamente il simbolo del lento (o non tanto lento) e costante indebolimento dello stato di diritto in Italia dai tardi anni Sessanta in poi. I giornali sono pieni di analisi, proposte, proponimenti, buoni propositi riguardo ai fenomeni macroscopici in tal senso. Qui si vuole soltanto suggerire che il ruolo fondamentale potrebbe finire con l’essere quello dei singoli che estendano, in modo più o meno contemplativo, più o meno attivo, più o meno prevedibile, la propria coscienza in direzione della società. Sono loro che, in fondo, scelgono: nel senso di determinare, in ultima analisi e magari dopo qualche tempo, il passaggio di certi eventi dalla cronaca alla storia. Il verso finale di uno dei più bei sonetti, dovuto a John Milton, nella storia di questo genere letterario, suona: Those also serve who only stand and wait. Tradurlo non è così semplice come sembra; potremmo dire: “Anche coloro che semplicemente ristanno e attendono, sono servitori”.