Lo so. Sul caso del carabiniere ucciso tutti adesso si interrogano sull’omicida reo confesso. Perché non è l’orco africano arrivato in barcone, che tutti si figuravano, in attesa di invocare barriere più alte nel Mediterraneo oppure di spiegare che, anche se tra gli immigrati ci sono criminali, però non bisogna strumentalizzare. Colpo di spugna. Ma io propongo di girare lo sguardo dall’assassino con le mèches. Non merita questo privilegio.



La vittima va studiata e pianta. La sua idea della vita, trasformata in martirio (cioè testimonianza) è carica di futuro e di speranza per tutti. Un bravo ragazzo, appena sposato, un carabiniere di gran cuore. Credeva di trovarsi davanti a due ladruncoli, un borsello da restituire in cambio di cento euro, non prevedeva esiti tragici. Otto coltellate, una al petto. Così è stato ucciso in servizio a Roma il vicebrigadiere Mario Rega Cerciello. La giovane sposa non ci crede, non ci si crede mai quando muore un ragazzo che è tutto per te. Lo hanno sperimentato tante madri e tante spose di soldati di tutte le guerre.



Capita ora da noi. Gli omicidi in Italia sono meno che negli altri paesi del mondo, lo sappiamo. Ma bisognerà pur riconoscere che il merito non è dei delinquenti che da noi sarebbero più buoni, ma del modo di essere, di affrontare le situazioni problematiche, di accettare il rischio da parte delle nostre forze dell’ordine. Le quali non sono “forze” astratte e impersonali, robot con le regole d’ingaggio del giustiziere, ma uomini e donne che hanno un tipo di presenza che fa scappare il male, o sa ridurlo a male minore. Tutto ciò al costo amarissimo di esporre il fianco ai violenti, perché forse non sono tali, forse ci può essere una soluzione pacifica.



Questo non è capitato ieri. I carabinieri lo mettono in conto. Non so voi, ma io non li vorrei diversi.

In questo momento queste mie riflessioni, forse banali, sono fuori stagione. Tutti siamo protesi non alla commozione e alla gratitudine; e neppure al desiderio puro di giustizia. Confessiamolo, anche se fa male saperlo: si stanno calibrando i pensieri sulla figura del colpevole. Fino a un momento prima della confessione ci si era divisi, anche se non si dice, in una sorta di tifo bestiale. Tra chi sperava che gli autori del crimine mortale fossero i ricchi americani o gli spacciatori nordafricani. I sospetti erano caduti anzitutto addosso a due studenti universitari ventenni Usa. Ma forse sarebbero – si diceva – implicati solo nel furto del borsello, mentre l’omicidio vedrebbe candidati più probabili tra i magrebini. C’è bisogno di spiegare che ciascuno dei due partiti intendeva le ipotesi alternative in vista di un buon tweet sull’immigrazione fonte di tutti i mali, o di un post su Facebook a proposito delle turpitudini del turbo capitalismo, assai più pericoloso della criminalità di bande di immigrati. E al diavolo chi fremeva già contro i barconi taxi delle mafie.

Non facciamo finta di niente. Ciascuno di noi è preda di questa stupida guerra di opinioni. Ci commuoviamo, ma poi siamo pronti dentro di noi a considerarla un’inevitabile moneta da versare all’ipocrisia sociale, chiudendola in una nicchia retorica, per passare al gioco dell’ira contro chi la pensa diverso sulle cause del malessere italiano. Io credo che onorare il vicebrigadiere Mario e il dolore della moglie Rosa Maria – entrambi devoti della Madonna di Medjugorje, e non è una pennellata di colore – significhi oggi saper giudicare tutto questo balletto polemico come un insulto al sangue versato e alla vita donata da un giovane carabiniere a tutti, alla comunità intera, che viene prima delle ideologie e delle fazioni.