Sottoscrivo parola per parola l’articolo di Monica Mondo e continuo a stare accanto, più di prima, ai carabinieri ed alle altre forze dell’ordine. Più di prima: perché la vicenda della stazione dei carabinieri di Piacenza, più ancora del delitto di Serena Mollicone ad Arce, del pestaggio mortale di Stefano Cucchi a Roma e di Federico Aldrovandi a Ferrara, mostrano come, a gravare sull’immagine di quell’arma che ci è sempre stata cara e che fa parte della nostra memoria nazionale, non ci siano solo i metodi irresponsabili ed omicidi da debellare, i silenzi e i depistaggi da eliminare, le connivenze silenti e colpevoli da azzerare.



Il caso Piacenza non è l’azione omicida, dovuta all’uso fuori misura di pratiche oramai improponibili e inaccettabili, ma è il primato dello stupidario idiota del nostro tempo: questo ridicolo primato del denaro che instupidisce e fa regredire ogni cosa, azzerando ogni discorso e che costituisce il nostro primo cancro morale.



La stazione carabinieri “Levante” di Piacenza apre pertanto un nuovo capitolo, mostrando come, accanto alle reazioni irresponsabili che possono portare a risultati irreparabili; accanto alle “orge del potere” che costituiscono il cancro di ogni potere costituito e che lasciano lo spazio a reazioni bestiali ed omicide, si sia ormai insinuato, alla base, l’elemento principe della stupidità e della meschinità umana: la prosaica “voglia di soldi” che, se da un lato è un mesto compagno di viaggio di ogni epoca, si incrocia oggi, grazie al relativismo culturale imperante, alla più completa dissoluzione di qualsiasi valore civile che questa irrimediabilmente produce, travolgendo ogni morale, ogni principio e spalancando le porte dell’azione criminale. Con Piacenza un gruppo di carabinieri ha raggiunto il punto zero della credibilità umana e civile.



Ma ben poco valgono i discorsi sulle “mele marce”. Le mele non possono marcire che in una cantina umida e devastata, i delinquenti di Piacenza vivevano (e forse vivono ancora) nella percezione di avere fatto, in fondo, quello che tutti gli altri fanno quando se ne presenta materialmente la possibilità. Loro non si sentono affatto “mele marce”, ma solo “mele sfortunate”, convinte che tutti i loro colleghi altrettanto abili, abbiano svoltato, trovando il modo di mettere le mani su quei “frange benefit” devianti che la divisa ed il prestigio dell’Arma consentono di acquisire. A loro avviso si sentono solo sfortunati, per qualche stupida fotografia e qualche frase di troppo, pronunciate nel delirio di onnipotenza che il male sa produrre in chi lo compie.

Chiedo scusa ai lettori ed all’Arma per quest’analisi impietosa e, ancora una volta, ripeto di essere affianco a questa, nella certezza che i colpevoli verranno adeguatamente puniti e nella convinzione che i carabinieri continuino ad essere il nostro baluardo. Ma non basta – occorre pur dirlo – punire e reprimere. Non bastano i sonori ed autorevoli moniti, né le più decise e dure prese di distanza: abbiamo esaurito il vocabolario. Né ci è possibile rincorrere il codice aumentando le pene e forzando i limiti previsti per i singoli reati con le aggravanti dovute al fatto di rivestire una divisa e di abusare della fiducia altrui.

Accanto alle legittime indignazioni, alle pubbliche denunce ed alle esplicite condanne occorre affiancare una nuova logica, una vera e propria rivoluzione copernicana, che sola può debellare la sotto-cultura dell’omertà propria di ogni sottobosco chiuso, una sotto-cultura che può invadere purtroppo ogni corpo separato e che, di fatto, lo avvelena.

È l’attuale momento di crisi a dettare la necessità di una simile svolta. Dinanzi ad un mondo che è chiamato a gestire crisi ed emergenze, che non può più cullarsi nel sereno e bonario ottimismo di un passato prossimo oramai sempre più lontano, non possiamo più permetterci di reagire al degrado che avanza e che colpisce e avvelena ogni clima, muovendoci sul solo piano della repressione e della denuncia che lo accompagna. Qui ci si gioca il futuro dell’Arma e con esso quello della democrazia, perché le forze dell’ordine – e quindi non solo i carabinieri – sono un elemento sensibile della nostra vita civile e non possiamo permetterci delle ombre, da nessuna parte.

Ci vogliono allora cambi di rotta semplici ed espliciti, realizzati con pochi gesti pratici, ma che sono del tutto eloquenti e testimoniano, questi sì, al di là delle ovviamente dure parole di circostanza, la reale volontà delle nostre autorità.

Una volta acclarati i fatti e essendosi sincerati di quanto accaduto, la rivoluzione copernicana consiste nel premiare chi denuncia. Premiarlo formalmente, ma anche proceduralmente, avviando quegli avanzamenti di carriera ai quali ogni servitore dello Stato aspira. Chi denuncia e la sua denuncia si scopre veritiera e dettata dal senso di giustizia, non deve più vivere nell’ombra, lasciato in un angolo e spesso nella solitudine, ma deve essere additato ad esempio, quindi lodato, premiato e promosso. Fino a quando l’encomio e la promozione di chi denuncia non diventano elementi strutturali, ogni struttura chiusa sarà sempre a rischio. È il male e non i soldi a “non dormire mai”.

Quando il cancro del guadagno ha devastato gli animi non c’è nessuna scelta altrettanto significativa quanto il non limitarsi ad agire solo sulla scala della repressione, ma intervenire anche sulla gerarchia dei meriti, premiando e promuovendo. Solo così possiamo tornare ad avere quella speranza e quella fiducia della quale proprio oggi, alla vigilia di una crisi economica che si preannuncia pericolosissima, abbiamo assolutamente bisogno.