Lo chiamano “pianeta carcere” perché appare come un mondo a sé, dove accadono cose che sembrano non riguardare noi del “pianeta liberi”. Eppure ci riguardano da vicino per tanti motivi: perché sono in gioco vite umane, perché su quel pianeta si consumano violazioni di diritti elementari, perché sono troppi coloro che dopo avere scontato la pena tornano a delinquere, mettendo a rischio la sicurezza sociale.
I numeri fotografano una situazione drammatica: secondo l’ultimo report del Garante nazionale delle persone private della libertà, alla data del 6 settembre i detenuti presenti nei 192 istituti di pena italiani erano 61.840, con un indice di sovraffollamento del 132% (+12% rispetto a giugno 2023), 67 quelli che dall’inizio dell’anno si sono tolti la vita (a cui vanno aggiunti 7 agenti di custodia), 9.430 gli atti di autolesionismo. La recidiva supera il 70%, le attività di formazione professionale e le occasioni di lavoro sono scarse, insufficiente il numero degli educatori, del personale di sorveglianza e di quello sanitario.
Oltre che mettere in campo provvedimenti tesi a ridurre il sovraffollamento – indulto, amnistia, depenalizzazione di certi reati – è urgente incrementare esperienze alternative alla detenzione e che si muovono nella logica di una giustizia rieducativa e non vendicativa. Nella convinzione che l’uomo non è definito dal suo errore e che – con buona pace di coloro che si lamentano per l’aumento della criminalità – la sicurezza della società è direttamente proporzionale alla possibilità di recupero di coloro che hanno sbagliato.
In questi giorni, ospitata nella sede dell’Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna, è tornata sotto i riflettori una mostra presentata nel 2016 al Meeting di Rimini, “Dall’amore nessuno fugge”, con l’indicazione di due significative esperienze di rieducazione: le APAC, carceri senza sbarre e senza agenti di custodia nate sessant’anni fa in Brasile e riconosciute dall’ONU come eccellenza nel panorama mondiale, e le CEC (Comunità educante con i carcerati), “case aperte” – presenti in Emilia-Romagna, Toscana, Abruzzo e Piemonte – dove i detenuti affrontano un percorso educativo a cui accedono d’intesa con la direzione carceraria e il magistrato preposto. Accompagnati da operatori e volontari, prendono coscienza del male compiuto, si misurano con una proposta di fede offerta alla loro libertà, lavorano, vengono inseriti in una rete di rapporti con il territorio e le imprese locali. Solo il 15% di chi è stato ospite delle CEC torna a delinquere dopo avere scontato la pena, a fronte di una recidiva del 70% nella popolazione carceraria. È dunque un’esperienza “conveniente” per i detenuti, per lo Stato, per la società.
Giulia Segatta, magistrato di sorveglianza a Trento, intervenendo al convegno svolto a conclusione della mostra a Bologna, ha evidenziato che visitando le CEC ha incontrato “un pezzo di realtà dove i principi costituzionali prendono vita, dove i principi di gradualità del trattamento, di reinserimento sociale, di avvicinamento tra detenuto e società sono realtà concrete”. Giorgio Pieri, responsabile delle CEC, ha ricordato che tra i provvedimenti previsti per fronteggiare la piaga del sovraffollamento (mancano ancora i decreti attuativi) c’è l’istituzione di un “albo di comunità”, strumento per consentire di uscire ai tanti detenuti che rientrano nei termini di legge ma non possono perché privi di riferimenti abitativi e relazionali (si calcola siano 7mila sotto i 2 anni di pena da scontare).
“Il mondo delle comunità chiede che i decreti attuativi ci mettano nelle condizioni di lavorare – commenta Pieri –. L’albo deve partire con chi è già sul campo e ha dato prova di affidabilità. Chi vuole entrare nell’albo deve essere attrezzato in maniera adeguata ed è auspicabile che le comunità collaborino fra loro con una regia statale, analogamente a quanto avviene con il sistema penale dei minori. È necessaria una retta adeguata che permetta l’assunzione di personale preparato. L’obiettivo è che nel tempo si arrivi a considerare le comunità come luoghi paritari al carcere in cui l’esecuzione della pena si concentra maggiormente sugli aspetti educativi e che siano in osmosi con la società: il reinserimento rimane una parola astratta se l’educazione è ristretta fra quattro mura, anche di una comunità. Per questo, una condizione imprescindibile è la presenza di volontari esterni appositamente formati. Gli stessi detenuti devono essere responsabilizzati nella conduzione delle comunità, rendendoli protagonisti dell’altrui e proprio cambiamento. Lo svolgimento di pene che abbiano una finalità educativa dentro un percorso comunitario protetto offre sicurezza ai cittadini, rispetto alle vittime e possibilità di riscatto del reo. Le esperienze delle Comunità educanti con i carcerati che da vent’anni operano in Italia lo testimoniano”.
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