Don Marcello Cozzi è un prete lucano, impegnato sul versante dell’educazione alla legalità e alla giustizia, nel contrasto alle mafie. Questa missione gli ha consentito di incontrare e accompagnare tanti pentiti di mafia e i testimoni di giustizia. È presidente della Fondazione nazionale antiusura “Interesse uomo”, è stato vicepresidente della Federazione italiana delle associazioni antiracket e antiusura e vicepresidente di Libera. Il suo ultimo libro Uno così. Giovanni Brusca si racconta ha provocato non poche polemiche.
Don Marcello, come e quando è nata la sua passione per queste persone così ai margini della società?
Sono ormai trent’anni che le incontro. Ho iniziato quasi per caso nel 2001 e poi ho proseguito sempre in totale silenzio e riservatezza. Dopo qualche anno, ho iniziato a scrivere qualche cosa, perché sentivo il bisogno di raccontare per dire a tutti quello che mi stava trasmettendo questo tipo di servizio.
E a quali conclusioni è giunto?
Nessuna conclusione, un semplice convincimento, che queste sono persone normali. Lo spiego così: io non ho ancora incontrato “il mostro”, io non so come è fatto un mostro. Io so come sono fatte le persone che hanno compiuto azioni mostruose. È diverso. Allora, se io so come sono fatte le persone, devo dire che sono persone come me.
Ma questo non può generare un po’ di equivoco?
Al netto di tutto quello che hanno fatto, io non posso esimermi dall’incontrarle. Questo non vuol dire che io non esprima un mio giudizio, è chiaro che abbiamo a che fare con persone che hanno le mani che grondano sangue. E dietro questa necessità di incontrale non c’è la logica della giustificazione a basso prezzo. C’è la volontà di incontrare una persona che ha compiuto azioni mostruose, ma che è una persona. E quindi questa mi interpella con le sue azioni mostruose.
Da dove parte questo suo ragionamento?
Parte dal fatto che c’è una umanità in tutti gli uomini che mi interpella, cioè la fragilità, i limiti. Questa umanità è venuta meno in loro, anche se molti di costoro sono stati battezzati e sono cristiani come me. Ma una cosa è parlare di questa umanità che è venuta meno e una cosa è il fatto che sono venuti meno ai sacramenti che hanno ricevuto, perché in questo caso allora bisogna ricordare che questo capita a tutti i battezzati. Io mi fermo volutamente all’accompagnamento che riesco a fare loro.
Perché il giudizio per queste persone che hanno sbagliato è così inclemente nella nostra società?
Nella nostra società manca la cultura della seconda possibilità. Questa è una società che culturalmente propende molto di più verso l’idea di metterli dietro le sbarre e buttare a mare le chiavi, perché è molto più semplice e comodo per tutti. È più semplice perché così non investi, non ti assumi responsabilità davanti alla persona che hai davanti, che ha pure sbagliato; ma la vera scommessa è proprio questa.
Non pensa che ci sia sotto sotto una sorte di manicheismo che vuol distinguere a tutti i costi i buoni dai cattivi?
Io mi rifiuto di pensare ad una società che si costruisca sulla base di una specie di selezione etica. Mi rifiuto di pensare ad una società in cui i buoni sono da una parte e tutti i cattivi li mettiamo… non so dove. Qualcuno dovrebbe dirmi dove. C’è a tal proposito una grande schizofrenia. Noi affermiamo che siamo contro la pena di morte, però in effetti condanniamo le persone a morte. Non voglio giustificare nessuno. Il male commesso è stato commesso. Bisogna pagare per il male commesso. Ma mi chiedo: che cosa ne facciamo poi di queste persone? Perché nessuno si chiede che fine farà uno che è stato condannato all’ergastolo? Perché mette problemi e crea paura. Affrontare questa domanda significa doverne affrontare un’altra più importante e decisiva.
Quale?
Che tipo di società vogliamo costruire. Conosco tanti che hanno commesso omicidi e stragi. Hanno sbagliato. Devono pagare. In base alle leggi, possono ottenere dei benefici. Ma poi lo Stato, la società non può pensare che queste persone entrino per sempre in una specie di buco nero. Poiché per queste persone non è prevista la pena di morte, quale percorso si deve offrire loro? Vogliamo costruire dei percorsi per cui queste persone possano riprendersi in mano la vita? Molti di questi mi chiedono di andare insieme nelle scuole a parlare ai ragazzi e io sono il primo a pensare che non è sempre opportuno, non tutti sono pronti per gesti di questa portata, cioè ascoltare chi ha ucciso. Quindi rispettiamo i tempi di tutti, sia quelli di Caino che quelli di Abele. Ma dopo aver rispettato i tempi di tutti, chiedo: che possibilità possiamo dare a Caino perché possa riprendersi in mano la vita? Io capisco che è quasi impossibile fare incontrare Caino con Abele, lo capisco per rispetto di Abele, però Caino mi appartiene.
Lei incontra varie tipologie di carcerati. Collaboratori di giustizia, pentiti, convertiti, ecc. Che differenze ci sono?
Parliamo dei collaboratori di giustizia. Il loro ruolo è fondamentale, come anticipò Giovanni Falcone. Eppure, non basta essere collaboratori di giustizia per essere accettati come persone in questa società. Questa è una logica perversa. Ma ce n’è una ancora più perversa. Accade che un collaboratore chieda perdono, però alla gente non basta, non è sufficiente. Questa è la grande menzogna.
Lo spieghi meglio.
Ci sono due posizioni. A chi non chiede perdono si replica: guarda quello, ha la faccia tosta di non chiedere perdono. E a chi ha chiesto perdono si replica che non è credibile. Troppo comodo, si commenta magari sottovoce: dopo che l’hai fatto chiedi perdono. E allora io mi chiedo: cosa devono fare queste persone? Questo non vuol dire giustificarle, però paradossalmente la palla così rimane nella nostra metà campo. Giovanni Brusca lo dice chiaramente. “L’ho fatto nei processi, l’ho fatto in varie interviste, ma non è servito a nulla. Alla società questo non basta. E quindi ad un certo punto ho scelto la linea del silenzio. Perché mi sembrava rispettoso nei confronti del dolore delle vittime”. Dice più precisamente: “per evitare di essere strumentalizzato”. Quindi nemmeno la linea del silenzio viene accettata. Qualunque cosa fai, quel male te lo porti incancrenito dentro per sempre agli occhi della società. Faccio sempre questa domanda: qual è la misura del prezzo da pagare?
Risponda lei.
Chi stabilisce questa misura? L’ergastolo non è una misura. Sembra quasi che il dolore venga attutito da quanti anni di carcere dai all’imputato. Più anni dai e più questo dolore può diminuire. Mi è piaciuto quello che ha detto il papà di Giulia Cecchettin alla fine del processo: “la mia sensazione è che abbiamo perso tutti come società. Non sono né più sollevato né più triste rispetto a ieri o domani. È una sensazione strana, pensavo di rimanere impassibile … È stata fatta giustizia, la rispetto, ma dovremmo fare di più come esseri umani. La violenza di genere va combattuta con la prevenzione, con concetti forse un po’ troppo lontani. Come essere umano mi sento sconfitto”. Quello è l’approccio. La società che non ha vissuto sulla propria pelle questi drammi dovrebbe riflettere di più su questo.
E dei pentiti che dice?
Il pentimento è una cosa complessa. Tra l’altro alla giustizia interessa la tua collaborazione, non il tuo percorso morale. Il pentimento ha una genesi che è diversa da persona a persona. Ci sono dei percorsi di pentimento che sono particolarmente complicati. Molte volte questo pentimento nasce anche dalla stanchezza del male. Alcuni di quelli che ho incontrato ai quali ho chiesto: perché ti sei fermato? Mi hanno risposto: perché ero stanco. Poi con il tempo hanno preso coscienza del male che hanno fatto.
E coloro che si sono convertiti?
La conversione è una cosa ancora più seria, dalle connotazioni spirituali, etiche, religiose e cattoliche. In alcuni casi si giunge a situazioni quasi di fanatismo religioso. Ho incontrato gente che vestiva di nero perché voleva portare il lutto come espiazione del male commesso. Altri che facevano gli eremiti in carcere chiusi sempre in cella, col desiderio di diventare monaci. Proprio uno di questi viveva in una celletta da cui non usciva mai e da cui si vedeva solo una croce illuminata in lontananza. In tal modo aveva maturato questo desiderio. C’è chi ha ripreso a pregare. Spesso si entra in un’altra dimensione. Com’è vero che ogni uomo è un mistero! Una volta uno di questi, poiché era mezzogiorno, mi interruppe e mi chiese di recitare l’ora sesta.
Proviamo a trarre qualche conclusione.
Certamente per prima cosa bisogna assicurare queste persone alla giustizia. Ma questo non basta. Né è sufficiente che collaborino con la giustizia. C’è da fare anche un’altra cosa: confiscare queste persone alla mafia. Come si fa con i beni materiali. Il bene principale che le mafie hanno sono le persone, confiscarle significa strapparli alla loro radice culturale, strappare la cultura che sta sotto le gambe di queste persone. Ma bisogna guardare più lontano.
In che senso bisogna guardare più lontano?
Siamo di fronte ad una bomba ad orologeria. Molti di questi hanno mediamente cinquant’anni all’incirca e quando usciranno dal programma di protezione non avranno più sovvenzioni dallo Stato, probabilmente non hanno un mestiere e quindi non sapranno di che vivere. E dunque, che faranno? Se negli anni della detenzione sono state tagliate le radici con il loro mondo è un conto, altrimenti la probabilità di tornare nell’ambiente di provenienza, anche se per necessità, è altissimo. Capiamoci: il motivo per cui vivevano in quel mondo non è solo di carattere criminale, ma prevalentemente culturale. Quando Brusca dice: “mi sentivo il soldato di un altro Stato”, vuole dire che per lui quello era il vero mondo e che quello capovolto è il nostro.
Quindi?
Se tu li abbandoni come Stato, loro che quel germe hanno ancora in corpo diranno: ecco, il mondo capovolto mi ha sfruttato e poi mi abbandona. Certe posizioni di purità che dicono che non bisogna avere a che fare neanche coi mafiosi pentiti non mi convincono. Io con queste persone voglio avere a che fare, perché voglio guardare la pancia della mafia dentro, perché la voglio capire, se la voglio combattere con più efficacia.
Cosa pensa dei nonni di Riccardo che a Paderno Dugnano ha ucciso i genitori e un fratellino, i quali hanno affermato che non lasceranno solo il nipote pluriomicida?
È una cosa bellissima. Ne ho incontrato tante di storie così, di padri o anche di figli che non hanno timore ad affermare: comunque è mio padre, comunque è mio figlio! Il rispetto per le vittime c’è sempre e ci deve essere sempre, l’ossessiva ricerca della verità e della giustizia ci deve essere sempre. Che agli assassini venga chiesto fino in fondo di essere fedeli alla restituzione della verità e della giustizia è cosa sacrosanta. Nello stesso tempo però non bisogna cedere alla logica giustizialista. Quando nel maggio di due o tre anni fa uscì la notizia che Brusca sarebbe stato scarcerato, anche se per precisione vive ancora sotto restrizioni giudiziarie, io ho avuto l’impressione che quell’onda mediatica, quello tsunami enorme che si sarebbe scatenato di lì a poco, era come se nel nostro Paese si stesse svegliando il mostro della vendetta, perché il mostro era uscito dal carcere. Il paradosso è questo: il mostro che usciva dal carcere risvegliava un mostro che si era solamente addormentato. È come se in quel momento questo Paese, che aveva accantonato per sempre il nome di Giovanni Brusca come se fosse finito in un buco nero dal quale non sarebbe più uscito, ha dovuto fare i conti con una terribile realtà: Brusca ancora esisteva. L’ho detto prima. Se io non voglio la pena di morte, cosa devo fare di queste persone?
E dunque?
Questa società, se vuole costruirsi in maniera civile, deve affrontare questi interrogativi. Per questo dicevo prima che siamo di fronte ad una bomba ad orologeria. L’età media di coloro che delinquono e che possono uscire dal carcere più giovani tende ad abbassarsi. Di questi cosa facciamo? Che prospettive diamo loro per impedire che tornino a delinquere?
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