La vicenda di Cecilia Sala scuote le coscienze e indigna tutti, visto l’atteggiamento palesemente ipocrita delle autorità di Teheran, ma alla fine c’è poco da stupirsi, dato che molto spesso i detenuti italiani all’estero diventano oggetto di scambio ma non salgono all’onore delle cronache nazionali, pur vivendo drammi che si consumano in silenzio.
Sono oltre un migliaio i nostri connazionali detenuti e se molti di loro “se la sono andata a cercare”, come si suol dire, altri sono palesemente innocenti e comunque tutti non meritano un trattamento a volte inumano. Anche nella civilissima Europa ci sono trattamenti carcerari molto duri, come nel caso recente di due italiani di Dorgali (Nuoro) arrestati ad ottobre al loro arrivo ad Helsinki. Per due mesi non hanno saputo i reati di cui erano accusati e non hanno potuto neppure nominare un avvocato difensore, per reati pare legati al traffico di stupefacenti.
Proprio la droga è direttamente o indirettamente la causa di molti arresti, e ciò si spiega col fatto che la legislazione all’estero è spesso molto più severa di quella italiana.
Il problema è che spesso nella rete cadono persone del tutto ignare di essere ricercate e non solo per casi di omonimia o per condanne di anni prima, magari già condonate o scontate in Italia, ma perché la nostra rete consolare è molto carente soprattutto nei Paesi più lontani, in Asia o in Africa, dove spesso neppure abbiamo una rappresentanza diplomatica. È prassi infatti che, ad arresto avvenuto, le autorità locali notifichino la detenzione alla nostra rappresentanza accreditata, ma nella pratica a volte passano settimane e intanto chi è in galera ci resta, senza protezione né diritti.
Se le Tv si mobilitano per casi come quello di Sala o di Ilaria Salis – che i ceppi in aula hanno trasformato in un’eroina della sinistra ed eurodeputata – la realtà è molto diversa in India o in qualche sperduto Paese africano.
Nel frattempo, se il detenuto ha soldi o in qualche modo riesce ad informare la famiglia, può sperare di cavarsela, altrimenti la via crucis è infinita. Chi ha mezzi può infatti ritagliarsi qualche vantaggio in carcere, ma nello stesso tempo diventa una gallina dalle uova d’oro e quindi – dai giudici ai carcerieri, agli avvocati locali – tutti sono propensi a tirare per le lunghe per spremere l’imputato o il cliente.
Mi sono occupato per molti anni alla Commissione Esteri della Camera di italiani detenuti e nel complesso la situazione è molto peggiore di quanto ci si possa immaginare, anche perché nelle nostre ambasciate i diplomatici sono pochissimi (a volte non più di un paio o uno solo) e quindi è anche obiettivamente difficile poter visitare detenuti, magari in un Paese limitrofo ma lontano centinaia di chilometri dalla sede della nostra rappresentanza diplomatica più vicina.
Quando, giustamente, si sottolineano i casi di sovraffollamento delle carceri italiane non si ha un’idea di quale sia la situazione in molti Paesi, compresi gli USA, dove la detenzione è “appaltata” dagli Stati ad imprese private. Oppure situazioni pericolose anche per la sopravvivenza, come avviene in Sudamerica, dove il controllo delle carceri è spesso in mano di fatto alle bande di detenuti e non agli agenti di custodia. Mafia, criminalità, violenze sono poi il pane quotidiano in carceri dove le celle contengono decine di prigionieri e vige la legge della sopraffazione e del più forte.
Forse servirebbe un vero e proprio specifico servizio alla Farnesina che curi meglio queste situazioni, intervenga, faccia capire alle autorità locali che “quel” cittadino italiano è comunque portatore di diritti umani di base che non possono essere violati anche se detenuto.
In generale la corruzione è presente ovunque, e più lunga è la detenzione più c’è gente che può approfittare della situazione.
Due casi fra i tanti che possono dare un’idea della realtà. A Minsk (Bielorussia) in missione parlamentare chiedemmo di poter verificare le condizioni di un italiano detenuto per presunto spionaggio e – dopo molte ore – ci portarono in un tetro edificio già sede del KGB mostrandoci un uomo incatenato (ben peggio della Salis) che parlava un pessimo italiano. Scoprimmo che era un caso di omonimia e il detenuto era invece un italo-americano accusato di stupro di minori. Così come ricordo la visita, in un carcere egiziano, a Fioravante Palestrini detto “Gabriellino”, che tutti gli (allora) ragazzi della mia età hanno conosciuto. Era un colosso di quasi due metri, il “testimonial” dei biscotti Plasmon che a Carosello suonava un gong. Passata la fama pubblicitaria finì in un giro di traffico di droga e condannato a morte in Egitto, pena poi commutata in 20 anni di carcere duro scontato a Limanthora, un’isola sul Nilo, fino all’ultimo giorno. Si salvò grazie a un missionario comboniano e quando lo conobbi era in una cella tra altri 60 detenuti dove era riuscito ad imporsi (e difendersi) solo grazie alla sua stazza.
Scontata la pena oggi è un bagnino in pensione a Giulianova e il 29 agosto 2017, a 71 anni, ha stabilito un record attraversando in 27 ore l’Adriatico remando su un pattino da spiaggia.
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