Da una galera non si vede l’ora di uscire. È un’idea consolidata, quasi logica, in qualche caso persino supportata da trame romanzesche che raccontano di evasioni avventurose che, sul filo della suspence, a volte trascinano l’emotività dalla parte di chi tenta la fuga pur di uscire dall’inferno. Eppure, ai nostri giorni, il “sogno della libertà” per alcuni detenuti rappresenta solo un’astrazione, un mito che si infrange contro una realtà durissima: chi si lascia alle spalle le sbarre che avevano rinchiuso la propria esistenza per anni, si ritrova catapultato in un deserto inabitabile, confinato in una solitudine angosciosa.



È notizia di pochi giorni fa: un ex detenuto di 38 anni, appena tornato in libertà dopo aver scontato la pena, non ha retto l’urto con il mondo esterno e si è presentato alla casa circondariale Gazzi di Messina per chiedere accoglienza. Non sono stati resi noti i dettagli di una storia che evidentemente riguarda una persona sradicata da un contesto familiare, privo di mezzi di sopravvivenza e di una progettualità di inserimento sociale: in carcere aveva trovato accudimento, il cibo e un tetto, oltre alla possibilità di condividere le giornate con gli altri carcerati superando l’angoscia della solitudine. Un ambito di segregazione – così emerge dalle scarne informazioni sul caso – in realtà aveva rappresentato per il detenuto un luogo protettivo, “umano”, che tuttavia non aveva sviluppato alcuna prospettiva riguardo al suo futuro. Colpisce l’insistenza dell’uomo che, dopo aver più volte domandato di essere “riammesso” all’istituto detentivo chiedendo di far giungere il suo appello anche alla direttrice del carcere, si è dovuto arrendere restando in balia del proprio disorientamento e di una disperante solitudine.



La vicenda, infine segnalata ai carabinieri, commentata con disappunto dall’associazione Antigone (impegnata per la tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale) che l’ha definita “una terribile storia di miseria sociale”, apre uno scenario allarmante. La notizia riportata da Repubblica infatti non riguarda solo un caso isolato: sono molti i detenuti che proprio quando vengono dichiarati “liberi” e abbandonano definitivamente il luogo di reclusione attraversano uno dei momenti più drammatici, al bivio fra il ritorno alla delinquenza e una strada alternativa, coerente con un ravvedimento sincero, che si rivela però immediatamente irta di ostacoli e a volte persino impraticabile.



Del resto, chi conosce bene la realtà carceraria sa che non mancano occasioni riabilitative, momenti di riflessione e di consapevolezza sul futuro, sulla vita che attende oltre le sbarre: “Non voglio tornare a vivere nella paura di essere arrestato da un momento all’altro… qui ho capito tante cose, vorrei una vita diversa anche per i miei figli…”. Non è raro recepire il desiderio di riscatto, ascoltare esperienze di pentimento per il male fatto, di riscoperta di un orizzonte liberante, di profonda riconciliazione nella prospettiva di un reale cambiamento. La questione cruciale riguarda l’opportunità di studio e di formazione, la possibilità di avviare già durante la detenzione percorsi di lavoro che creino ponti fra il mondo carcerario e il territorio, il tessuto produttivo. Ma di fatto sono ancora troppo pochi gli istituti che attivano progetti efficaci,  tesi a un riscatto concreto per chi esce dal carcere senza mezzi, sprovvisto di una preparazione che faciliterebbe l’ingresso nel mondo del lavoro, di mezzi per affrontare i primi scogli di una vita che ricomincia.

Il caso del trentottenne di Messina solleva un problema drammatico, non solo evidenziando lacune e inefficienze del sistema carcerario, ma facendo emergere i tratti di una società sempre più alienata e indifferente, incapace di intercettare solitudini e angosce che restano invisibili, totalmente disattese.

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