Oggi, domenica 25 agosto, alle 13, al Meeting si terrà un incontro dal titolo: Dagli uomini d’onore agli uomini d’amore, che metterà a confronto vittime di omicidi di mafia e killer, oltre ad alcuni operatori della giustizia.
Per comprendere il significato dell’incontro e delle tematiche che verranno discusse, vorrei partire da un libro: La crepa e la luce di Gemma Calabresi, la vedova del commissario Calabresi, ucciso all’epoca del terrorismo.
Lei, subito dopo aver appreso dell’omicidio del marito, a 25 anni, trovandosi improvvisamente sola, con due figli piccoli e uno in attesa da crescere, capisce che ce la farà perché, in realtà, non è sola: il Signore le si manifesta come un compagno forte e fedele e subito stringe le mani di don Sandro, il prete che li aveva sposati e che l’aveva raggiunta per starle accanto, e gli mormora: “diciamo un’Ave Maria per la famiglia dell’assassino” … e cominciano a recitarla insieme.
È l’inizio di un percorso di vita e di fede che, a distanza di cinquant’anni, può farle dire che la sua storia è stata positiva e che lei è in pace (impressionante!). Il culmine di questo cammino è il perdono maturato nel tempo: sincero, profondo, liberante.
Sul necrologio, su suggerimento di sua madre, usa le ultime parole di Cristo sulla croce: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Dopo 50 anni capisce che queste parole l’hanno aiutata a risalire la china, erano il primo gradino sulla sua strada di perdono.
Nel mio lavoro di avvocato penalista ho spesso a che fare con persone che hanno commesso gravi crimini o con le loro vittime: i primi, alcuni, dopo tanti anni di carcere, pentiti del male commesso, anelano il perdono di coloro che hanno fatto soffrire; le vittime, che riescono a fare il grande passo di perdonare, raggiungono una pace insperata: il perdono, infatti, non a caso è un atto profondamente cristiano (ma alla portata di tutti) perché lenisce e rimargina le ferite e introduce una novità di vita.
Chi ha commesso un crimine, chi ha rovinato la vita altrui e la propria, ha bisogno del perdono della vittima, dei suoi parenti, del sistema giudiziario, perché – in fondo – ha bisogno, principalmente, di perdonare sé stesso: il perdono, innanzi tutto di sé, è il più potente fattore di rinascita.
Paolo Amico (uno dei killer del beato Rosario Livatino) alla presentazione della mostra sul giudice (ucciso nel 1990 in un agguato mafioso) nel carcere di Opera, dove sta scontando l’ergastolo, dopo 17 anni di carcere duro (in regime di 41 bis) ha raccontato di aver sentito i genitori di Rosario Livatino in tv che, anziché maledire gli assassini del figlio, esprimevano il loro dolore, immaginando la sofferenza provata dai loro genitori per il buio in cui erano caduti i loro figli.
Nel tempo “quelle parole hanno attecchito dentro di me”, poi ha incontrato un giudice che gli ha fatto intravvedere un percorso riabilitativo e i volontari di Incontro e Presenza che gli hanno fatto una compagnia gratuita: “è come se si fosse aperto il sepolcro della tomba in cui ero seppellito e una nuova luce è penetrata nel buio della mia esistenza”.
Ha cominciato a percepire che anche per lui poteva esserci un nuovo inizio: “Ci sono incontri che portano alla perdizione e incontri di salvezza, che possono dare alla vita una direzione nuova e aiutare a capire che l’uomo non è il suo errore, come io non sono solo il reato gravissimo che ho commesso quando avevo 23 anni. Quel giorno in quel viadotto non è morto il giudice Livatino, è morto quel ragazzo di 23 anni, pieno di rabbia e io sono rinato a vita nuova. Rosario Livatino è presente e io prego lui e Dio, che è capace di abbracciare il male, ogni male, in una misura all’uomo impossibile”.
Nel decreto di beatificazione del giudice Rosario Livatino, si legge che “ha vissuto il proprio lavoro nella speranza della redenzione anche da parte dei criminali più incalliti”: questa stessa speranza è ciò che permette a me, come avvocato, di difendere chiunque, anche i peggiori colpevoli, perché nessuna persona può essere definita dal proprio errore, ancorché gravissimo.
Per tutti vi è e vi deve essere la possibilità di redimersi e riscattare socialmente il male arrecato: quando ciò avviene è una vittoria per tutti, vittime, magistrati, avvocati e collettività; non credere a questa possibilità è una sconfitta in partenza.
Quando si parla di mafiosi e di uomini d’onore, in generale si tende ad escludere questa eventualità positiva: perché il patto scellerato che li ha condotti prima a commettere delitti e poi in carcere, si ritiene indissolubile, e strumentale ogni accenno di riabilitazione.
Quello che ci sarà raccontato dai protagonisti dell’incontro, invece, testimonierà che nulla è impossibile quando ci si imbatte in una realtà, quella della fede (attraverso incontri e circostanze spesso inaspettate), più forte di qualsiasi legame d’onore: e così, sia per le vittime e sia per i carnefici si apre una prospettiva di novità di vita, un vero e proprio rinascere di nuovo (per usare le parole di Paolo Amico).
Sentire questi racconti conforta: i fatti sono più veri dei preconcetti e delle ideologie, chi opera nella giustizia non può non farci i conti e guardare all’uomo, quello che difende o che deve giudicare, con la stessa speranza del giudice Livatino.
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