È difficilissimo, scrivere della vicenda di C.U. È uno dei tre ragazzi che l’anno passato hanno ucciso a sprangate la guardia giurata Francesco Della Corte, a cui a luglio scorso il giudice ha concesso un giorno di permesso per festeggiare il diciottesimo compleanno con amici e parenti.

Difficilissimo, perché come si fa a non essere d’accordo con la figlia di Francesco, che con grandissima dignità scrive: “A chi gli ha accordato il permesso mi permetto di ricordare che di recente ho compiuto 22 anni ma non ho spento candeline e non ho avuto torte e regali. E lo sa perché? Perché chi oggi festeggia ha ucciso mio padre, la persona più importante della mia vita”? Ancor più difficilissimo – la sgrammaticatura è voluta – perché come si fa a essere così idioti da postare sui social le foto di quella festa (pare proprio che l’idiota non sia il ragazzo in questione, ma qualcun altro)?



Credo di capire le ragioni della vedova, le ragioni della figlia. Portano con sé un dolore che niente e nessuno potrà risanare, e nessuno può permettersi di giudicare le loro reazioni. Però, in fondo, da qualche parte, non riesco a non fare il tifo per il giudice che ha dato a C.U. il permesso di uscire.

Forse perché ho a che fare tutti giorni con ragazzi che non sono molto diversi da lui, che potrebbero domani fare una bestialità come la sua, senza forse neanche rendersi conto fino in fondo di cosa stanno facendo (giusto oggi accompagno uno di loro, sulla testa una denuncia per aggressione, a vedere se un’autofficina davvero lo assume).



Forse perché tanti anni fa ho avuto un’alunna con il padre in carcere, otto anni per una sciocchezza (non aveva ammazzato nessuno, camionista, si era fatto convincere a fare il corriere della droga), e ho ben presente il dolore di lei e della famiglia perché, per anni, non gli hanno mai dato un giorno di permesso neanche a morire.

Forse per l’impressione che mi ha fatto leggere Cristo dentro, il racconto – pubblicato da Itacalibri – di tanti detenuti tornati uomini in carcere. E forse può anche darsi che dare a C.U. un permesso dopo poco più di un anno di carcere sia stato affrettato. Però non riesco a non fare il tifo per lui. Capisco, ripeto, il dolore delle vittime. Non mi sogno neanche di dire che “dovrebbero” capire, o perdonare. Il perdono è un atto così gratuito, così per così dire esagerato, che non può essere imposto o preteso da nessuno.



La giustizia, la giustizia come sistema, voglio dire, nasce però proprio quando e perché dei gruppi umani hanno deciso di sottrarre pene e remissioni alle reazioni delle vittime (prima, c’era solo la vendetta). Le reazioni delle vittime sono comprensibili, e insindacabili. Ma la società, la comunità, può avere anche uno sguardo più ampio. Può anche scommettere che una vittima sia sufficiente, non ne servano due. Può scommettere che, se un ragazzo ha commesso un crimine, il più terribile dei crimini, ha ucciso una persona, possa non esserne segnato per sempre. Già è stata segnata per sempre la vittima. Già sono segnati per sempre i suoi famigliari. Anche il colpevole, dal punto di vista della coscienza, è segnato per sempre. Che vantaggio c’è, a inchiodarlo per sempre a quell’atto? Vogliamo dargli una possibilità di essere di più di quel che è stato in quel momento terribile?