L’ho beccato, alla lettera, con le mani in pasta: stava impastando il lievito nella pasticceria del carcere. Le sue mani somigliavano a quelle di un musicista sulla tastiera, di un pittore sulla tela, di un artista all’opera. Dalle mani, poi, sono risalito al volto: mi pareva familiare pur non avendolo mai incrociato, terribile pur inerme. L’ho fissato, ho abbassato lo sguardo, l’ho rimirato. Si è accorto del mio sospetto: “Sono io” mi ha confermato con un anticipo di sorriso.



Era proprio lui, dunque: l’uomo di una spietatezza feroce, un killer di quelli fatti bene, l’angoscia di una città in preda a rabbia e paura. Erano passati più di vent’anni dai misfatti, ma la sua faccia è rimasta legata a quelle gesta omicide e lerce. Con in mano la pistola, ha portato la morte in casa degli altri e la vergogna in casa sua.



Dopo decenni passati nella gattabuia della galera, le mani sono le stesse. A mutare è stata la destinazione d’uso di quelle mani: “Memorizzale – mi sono detto –: mani che ieri hanno procurato morte possono diventare mani che, domani, daranno vita alla bontà”. Le mani, a volte, sono rivelazioni: alcune ti aprono finestre, altre sono delle finestre. Mettere le proprie mani in buone mani: questo è.

I panettoni sfornati da loro nella galera di Padova (“I dolci di Giotto”) sono storie che narrano storie: di ricette e risurrezioni, di scorribande e ripensamenti, di vecchi agguati e sorprese inedite. Di convivenze impensate: “Com’è possibile che una bestia diventi angelo?” borbotterà qualcuno.



È l’identico mistero che abita nell’incontro tra zenzero, mandarino e gelsomino: è arte dei pasticceri far convivere i diversi sorprendendo il palato. È sfida di chi educa riusare il passato per produrre futuro, nel presente. Succede come con la pesca, l’albicocca e la lavanda: una nasce per terra, le altre in alto, sui rami. Quando si mettono in cooperativa tra di loro, nasce un sodalizio sensuale.

Quando li vedo all’opera – tra impasti, degustazioni, confezionamenti – mi pare d’essere dentro un’officina: ci sono storie dietro quelle mani, ci sono finali di storie, anche nuovi inizi. Quelle mani sono un ciclo di (ri)produzione infinito. Una manutenzione di mani: arrivano mani usate che, come con le auto d’epoca, vengono restaurate per rimetterle in circolazione: il loro valore, alla prova dei fatti, certe volte quintuplica.

Lavorare i dolci, in carcere, è doppio lavoro: lavorando la materia si lavora la propria storia. Il fatto è semplice da apparire scontato: impastando il buono si diventa buoni, lavorando sul bello si diventa tali. “Sono fastidiosi come la mosca sul naso”, mi disse un giorno un signore parlando dei carcerati. Quella mosca è un’annunciazione: Giotto, quand’era a bottega da Cimabue, dipinse una mosca sul naso di una figura creata dal grande maestro. Che si accorse dello scherzo solo dopo aver fatto più volte il gesto con le mano per mandarla via, tanta era la perfezione artistica di quella mosca. Nel fastidio, certe volte, s’annuncia il genio.

Certi pensieri nascono che sono muti: ci penseranno le mani, una volta fatta la manutenzione, ad raffigurarli con arte. Assurdo? Chiedete conferma al palato.

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