Sono del tutto insoddisfacenti le risposte che ieri il ministro Nordio ha dato in Parlamento rispondendo all’interrogazione di un deputato che lamentava l’inadeguatezza degli intervento governativi per contrastare i suicidi nelle carceri e il sovraffollamento che caratterizza tutti gli istituti penitenziari.

Questi i numeri. In poco più di sei mesi si sono tolti la vita 57 detenuti (in tutto il 2023 erano stati 71) e oltre 800 sono stati i suicidi sventati. Quanto al sovraffollamento, a fronte di una capienza regolamentare di 47mila posti i reclusi sono ad oggi oltre 61mila.



Nordio ha difeso il suo “decreto svuotacarceri” (che in realtà non svuota nulla, almeno in tempi brevi) ed ha risposto in maniera confusa e contraddittoria ai quesiti postigli.“Non c’è nessun rapporto causale diretto tra suicidi e sovraffollamento carcerario – ha dichiarato il ministro –. Abbiamo esperienza di momenti di sovraffollamento in tempi passati in cui i suicidi erano ridotti. (…) I suicidi sono un fardello di dolore che noi abbiamo, ma sono eventi imprevisti e imprevedibili, che sono radicati nel mistero della mente umana. Il sovraffollamento carcerario aumenta il rischio del suicidio”, quindi “abbiamo potenziato l’opera di assistenza psicologica che secondo noi è l’unica che possa avere effetto immediato per ridurre, attenuare e individuare i fattori di rischio di questo fenomeno”.



Ecco allora che ben si comprende che occorre come prima cosa abbattere il numero dei detenuti, ma è assolutamente evanescente la soluzione principale che propone il ministro: costruire nuove carceri. È una soluzione inadeguata perché la burocrazia in materia edilizia paralizza ogni iniziativa che vuole essere rapida ed efficiente ed è lo stesso ministro che lo ricorda, ammettendo che si tratta di un “piano a medio, se non a lungo termine”.

E allora cosa resta del piano “svuotacarceri”? Ecco la soluzione che il ministro tira fuori dal cilindro: sarà nominato un commissario straordinario che dovrà occuparsi del piano nazionale per l’aumento dei posti nelle carceri. Bella soluzione per risolvere in tempi brevi il problema del sovraffollamento: peccato che come lui stesso ha confessato, ci vorranno mesi, anzi anni per attuare il piano.



E intanto i suicidi aumentano. Ma i danni che provoca il sovraffollamento sono anche altri. Il lavoro per i detenuti è insufficiente, l’assistenza sanitaria è carente, gli educatori non bastano, le condizioni igieniche sono pessime, la polizia penitenziaria è sotto organico: insomma è tutto il sistema che ne risente.

Possono andare bene gli interventi proposti da Nordio, ma vanno accompagnati da un’immediata, drastica riduzione dei numeri dei detenuti. Ed ecco allora che in Parlamento è in discussione la proposta Giachetti (Italia viva), che ha proposto di modificare le norme in tema di liberazione anticipata, il beneficio che consente di ottenere uno sconto di pena in caso di buona condotta. Una soluzione ragionevole anche perché consentirebbe di scarcerare solo i detenuti prossimi alla fine pena e che hanno tenuto condotte virtuose.

L’alternativa sono l’amnistia e l’indulto (altrimenti detto condono). Parole che per molti sono stregate, quasi che pronunciarle equivalesse a bestemmiare.

In realtà l’indulto è un provvedimento di clemenza previsto dal codice penale che consente di cancellare una porzione di pena (di norma, due o tre anni). Proporne l’applicazione non è quindi eversivo. L’indulto è un beneficio che ha trovato spazio anche nella nostra Carta fondamentale. Se ne è fatto in Italia un uso frequente dalla proclamazione della Repubblica ad oggi ogni qual volta una situazione di emergenza (come quella attuale) lo richiedesse. L’ultimo provvedimento concessivo risale però addirittura al 2006. Sono passati 18 anni: mai nella storia del nostro Paese vi è stato un intervallo di tempo così lungo tra un provvedimento di clemenza e l’altro.

Abbiano i nostri politici un po’ di coraggio e si ricominci a parlare di indulto e amnistia senza riferimenti stucchevoli e demagogici a inesistenti ricadute in termini di sicurezza sociale o, come dice il ministro, a “resa dello Stato”. La resa dello Stato è in realtà lasciare che la gente in carcere continui ad ammazzarsi o viva in condizioni indecorose in violazione dell’art. 27 della Costituzione, che prevede la funzione rieducativa della pena.

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