Nonostante il mondo scientifico abbia svolto molte ricerche per cercare di capire le ragioni per cui ad un certo punto una persona desideri togliersi la vita, il mistero resta comunque affidato alla libertà individuale e custodito nell’intimità personale. A volte è la letteratura, che nei suoi racconti o, meglio ancora, nei suoi romanzi, dischiude nuovi orizzonti in cui è possibile introdursi per cogliere, almeno ex post, il senso e il significato di determinati gesti. Ma prevederlo realmente, calcolare il famoso fattore di rischio, resta una delle imprese più difficili, soprattutto quando lo scenario è quello di un carcere. A posteriori, si possono anche fare ipotesi ragionevoli, ma a priori l’alea di incertezza resta sempre enorme. Eppure, prevedere il fattore di propensione al suicidio consentirebbe di attivare una prevenzione del rischio a forte caratterizzazione individuale, quindi più efficace. Nessuno vuole che qualcuno si suicidi, perché si sente solo, perché subisce una prevaricazione insopportabile, perché l’anonimato dell’indifferenza lo soffoca, perché il futuro è come un tunnel senza via d’uscita.



I dati attuali

Una delle emergenze più importanti nel nostro Paese riguarda il sovraffollamento delle carceri, a cui è strettamente legato il dramma dei suicidi che proprio lì si verificano. Sui 51.347 posti disponibili, i detenuti sono in realtà 60.634, di cui 18.987 stranieri. Fino ad oggi, nel solo 2024, sono stati 56 i detenuti che hanno deciso di togliersi la vita, a cui si debbono aggiungere anche sei agenti della polizia penitenziaria, per un totale di 62 casi. Si entra in carcere per scontare una pena per una colpa commessa, e prima ancora per accertare se ci sia effettivamente la colpa; ma un detenuto non immagina di doversi confrontare con temi e problemi che vanno al di là di ciò che lui stesso ha commesso, a cominciare dal sovraffollamento, dalla carenza sanitaria e psicologica, dalle strutture fatiscenti, e, ultimo ma non ultimo, da condizioni igieniche oggettivamente precarie.



Il degrado del sistema penitenziario si trascina, governo dopo governo, da almeno 25 anni, con pesanti responsabilità che si trasmettono da uno schieramento all’altro, da un partito all’altro. Senza che nessuno possa sentirsi escluso e senza che mai affiori una soluzione condivisa da tutti. Nordio è solo l’ultimo di una lunga serie di Guardasigilli, pieno di ottime intenzioni che è difficile si traducano in soluzioni ideali, senza la collaborazione dell’intero governo e del parlamento.

Tutti sono pronti a riconoscere che non sempre in quei luoghi vale il principio del rispetto dei diritti umani. A cominciare dal rispetto dei tempi della giustizia, che a volte si protraggono oltre ogni ragionevole limite. Ma la défaillance più grave a volte sta in alcune cose concrete; per esempio, a volte manca l’acqua corrente poiché le condotte idriche interne al carcere sono vecchie e se si aumenta la pressione esplodono. Ma se la pressione è bassa, nelle celle non arriva acqua, con le conseguenze che è facile immaginare.



In un clima di profonda incertezza rispetto al futuro e in un contesto oggettivamente umiliante per quanto riguarda il presente, può prendere forma il desiderio di farla finita. I detenuti si impiccano, inalano il gas dei fornelli, si tolgono la vita infilando la testa in buste di plastica. Nella maggior parte dei casi sono giovani, alcuni hanno pene brevi da scontare, ma ne ignorano i contorni, i limiti. Sono abbandonati a sé stessi, come abbandonato a sé stesso è il personale, per mancanza di risorse, per una formazione inadeguata, per un supporto psicologico scarso, per una fragilità anche fisica che nasce dal logoramento costante.

Il disfacimento strutturale delle carceri, anche in fatto di igiene e di sicurezza, pesa sui detenuti ma anche sul personale di polizia penitenziaria che a volte deve affrontare turni h24, ininterrotti. L’assistenza sanitaria, soprattutto per quanto riguarda la salute mentale, è scarsa; quindi, si può immaginare che le persone vivano in uno stato di sconforto che possa condurre a gesti estremi.

Disturbi psichici e degrado

Non c’è dubbio che le caratteristiche del contesto carcerario giochino un ruolo importante, molto importante ma non determinante, altrimenti non parleremo di 56 persone su 60.634. basta pensare alla regolarità dei ritmi e delle modalità delle attività svolte, orari, incarichi, mensa… tutto è programmato da una direzione penitenziaria che dovendo regolare e controllare un’intera comunità non tiene in conto le necessità dei singoli.

Ognuno desidera essere conosciuto e riconosciuto con la propria personalità, con il proprio nome e cognome, non con un generico numero o peggio ancora con il numero della cella, come se questa fosse garanzia di identità personale. Quel bisogno incoercibile di lasciare il segno della propria personalità, dei propri gusti e dei propri interessi; quel naturale egocentrismo per cui ognuno pretende di adattare l’ambiente a sé, piuttosto che sé all’ambiente.

L’anonimato imposto al gruppo suscita in alcuni il desiderio di ribellione, che porta a far emergere la propria identità, con tutte le fragilità che ognuno si trascina dall’infanzia e che in questo caso possono esplodere vistosamente. Le caratteristiche stesse della detenzione sono un fattore deflagrante per certe personalità più depresse, che si vedono annullate dal modello di vita a cui sono costrette: morte prima del tempo. Disturbi psichiatrici latenti si rivelano in forma drammatica; in alcuni casi possono esserci stati precedenti tentativi di suicidio in famiglia, o gli stessi detenuti possono aver già lanciato in precedenza alcuni segnali d’allarme. Cercano aiuto ma in genere non lo trovano, né nel personale, non di rado usurato da lunghi anni di permanenza nelle diverse case circondariali, né nei colleghi di detenzione, perché assorbiti dal loro stesso malessere.

A volte ci sono episodi di violenza, di abuso sessuale, tutte dinamiche che sottolineano la propria debolezza e fanno rivolgere contro sé stessi la propria aggressività. A volte prevale un effetto manipolatorio e il tentato suicidio serve ad ottenere qualche vantaggio secondario, come lo spostamento in un altro carcere, ritenuto a torto o a ragione più vivibile. Ma l’obiettivo principale, se si vuole rispettare il detenuto nella sua dignità personale, è prevenire sia il suicidio che il tentato suicidio. E il sovraffollamento fa effetto massa, non certamente effetto comunità, gruppo, appartenenza. Ci si schiaccia a vicenda, destando rancori e desideri di rivalsa, che nulla hanno a che vedere con le cause della detenzione, ma che diventano icona della detenzione stessa.

Prevenire il suicidio

Ridurre il numero delle persone nelle carceri è condizione necessaria ma non sufficiente. La prima cosa sarebbe ricordare perché uno sta in carcere: è vero ha commesso un reato, ma il carcere oltre che riparazione è anche rieducazione; non è solo punizione, ma scoperta di un panorama nuovo in cui si iscrivono quei diritti umani che sono diritti di tutti, anche dei detenuti. La libertà viene provvisoriamente limitata, per imparare a farne miglior uso.

In Italia la pena di morte non c’è; non c’è l’omicidio del consenziente e non c’era neppure fino a poco tempo fa il suicidio assistito. Semplicemente, almeno sul piano teorico in cui sono definiti i nostri valori, il nostro sistema carcerario ribadisce il valore della vita; quindi, si prodiga in ogni modo per non permettere che la gente si suicidi, né in carcere né fuori. Perché la vita vale, perché è un diritto fondamentale. Perché siamo amici della vita sempre e in ogni circostanza: quindi in carcere non ci si può andare per suicidarsi, ma per capire cosa non ha funzionato finora e imparare a farlo funzionare meglio.

Non ci scandalizziamo davanti al suicidio in carcere, addossandone tutte le responsabilità al governo e alla società, e poi ci prodighiamo per estendere il ricorso al suicidio assistito per tutti coloro che hanno perso il gusto e la speranza della vita. Altrimenti il ministro Nordio potrebbe fornire un Kit, rigorosamente gratuito, per l’aspirante suicida in carcere per morire il più dignitosamente possibile, anche questo potrebbe essere un sistema svuota-carceri. Ma non ne ha mai parlato, nonostante la creatività delle alternative al carcere di cui pure ha tracciato molte linee alternative.

Non vuole che il detenuto muoia, perché non ce la fa più. Vuole che viva, in carcere o in un sistema alternativo, ma che viva e affronti le sue difficoltà e le sue responsabilità. Non ha mai pensato ad una sorta di eutanasia sociale, in cui chi non vuol più vivere ottiene un ticket di Stato per sparire, senza ulteriori sofferenze. Vuole qualcosa di più dal sistema giudiziario che governa. Come noi vogliamo molto di più dal nostro Servizio sanitario nazionale, perché la gente preferisca vivere e non si rifugi in un ipotetico “paradiso” senza dolore e senza calore umano. Vogliamo che le ASL curino davvero il dolore fisico e morale, psicologico e sociale, da cui ci sentiamo a volte sopraffatti… Come i nostri detenuti, se opportunamente aiutati, ce la possiamo fare.

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