Le carceri femminili italiane sono finite, recentemente, al centro di un libro scritto dalla giornalista catanese Katya Maugeri, intitolato “Tutte le cose che ho perso”, che mira a denunciare la condizione precaria e inumana in cui versano le detenute. Una situazione che a più riprese è già finita al centro di numerose critiche, che tuttavia si sono spesso concentrate sulla condizione dei penitenziari maschili, o di quelli misti, rappresentando la maggioranza.



Infatti, le carceri femminili sono appena 4 in tutto il territorio ed ospitano complessivamente 599 detenute, alle quali si aggiungono anche le altre 1779 che si trovano in strutture miste. A conti fatti, le detenute sono il 4,2 % della popolazione carceraria italiana, ma non per questo devono e possono essere ignorate. Secondo l’associazione Antigone, ma anche secondo i racconti raccolti da Maugeri, alle donne in carcere mancano i diritti base, come l’accesso all’istruzione o al bidet nelle celle, ma anche alle visite ginecologiche. Così, la tossicodipendenza nelle carceri femminili registra l’incredibile percentuale del 64% e rappresenta la prima causa di suicidio, mentre la seconda sono i disagi psichici.



Il racconto sulle carceri femminili: “I farmaci sono un modo per non penare”

Insomma, mentre le carceri italiane in generale versano in condizioni critiche, sembra che quelle femminili non facciano abbastanza scalpore. Per questa ragione, Katya Maugeri ha deciso di scendere in campo, intervistando chi ci vive in quel tempo sospeso e vuoto, in cui spesso non si ha neppure accesso all’igiene di base. “Stavamo in quattro”, racconta una giovane detenuta, “ci muovevamo fra due letti a castello di colore celeste sbiadito, un tavolo, gli sgabelli, i pensili, un water e un lavandino che utilizzavamo sia per lavare i piatti che il viso“.



Nelle carceri femminili, inoltre, racconta ancora, mancano i bidet, “il 60% delle detenute non ce l’ha, nonostante sia previsto per legge”. Un’altra detenuta racconta che “in alcune sezioni mancano le attività scolastiche, perché non ci sono i numeri minimi necessari per comporre una classe”, costringendo le donne ad accontentarsi di corsi di uncinetto o di lavori a maglia, “attività figlie di una visione stereotipata e patriarcale”. Ma una soluzione, racconta ancora, c’è e contribuisce a quel dato sulla tossicodipendenza nelle carceri femminili, “lo chiamavamo il carrello della felicità: tre volte al giorno, a volte quattro, passano gli infermieri per la distribuzione dei farmaci”, perché è “meglio anestetizzarti per sospendere il pensiero“, mentre “se pensi impazzisci”.