Il cardinale George Pell, morto ieri mattina a 81 anni, subito dopo un’operazione all’anca finita male, era un uomo – soprattutto un uomo! – irruento. Quando arrivò in Vaticano, chiamato nel 2014 da Francesco per sistemare la baracca economica e metterne sotto controllo la gestione, fece uno sconquasso. Si circondò di professionisti pagati fior di quattrini, perché volle i più bravi, con scandalo delle anime belle, e si assegnò anche un appannaggio adeguato alla responsabilità. Aveva idee chiare, ma i modi erano quelli di un giocatore di rugby com’era stato in gioventù: travolgere tutto quello che si opponeva al raggiungimento della meta, rompendo nella corsa qualche osso e qualche vaso sacro. Ma finendo a sua volta in infermeria.
Di recente, nell’intervista natalizia a Canale 5, papa Bergoglio ha riconosciuto che aveva ragione Pell, e bisognava fare secondo i suoi intendimenti. Probabilmente si è pentito di aver troppo in fretta accondisceso alla richiesta della magistratura australiana di richiamare Pell in patria per rispondere dell’accusa di abusi sessuali su due chierichetti tredicenni. Come cardinale al lavoro presso la Santa Sede, e con il rango di ministro (era Prefetto per l’Economia), la richiesta si sarebbe potuta serenamente respingere in punta di diritto. Impossibile però, salvo accettare l’accusa di proteggere pedofili. Quando l’indagine riguarda reati obbrobriosi, e a essere investita della questione è ormai la giurisdizione civile, trincerarsi dietro un paravento diplomatico è peggio di una sentenza per la reputazione della Chiesa cattolica e dello stesso Pontefice.
Il fatto è che bisognava – col senno di poi – leggere con calma le carte. Altro che appellarsi a guarentigie: dagli atti emergeva l’assoluta inconsistenza e inverosimiglianza di un rinvio a giudizio. Il fumus persecutionis era palese. Si sarebbe dovuto obbligare il prelato a non consegnarsi a un plotone di esecuzione, trattenendolo a Roma e protestando per la pretestuosità anticattolica dell’assunto accusatorio.
Niente da fare. La cattolicità ha creduto alla voce tonante dei media australiani, e persino di quella parte della Chiesa votata al complesso di colpa a prescindere dai fatti. Ed ecco allora, abbandonato da quasi tutti i confratelli di porpora, il cardinale Pell nella sua patria – dov’era stato arcivescovo di Melbourne e di Sidney, amatissimo da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI – sommerso da calunnie senza tregua. Era un uomo, come detto, prima ancora che ecclesiastico: non era del tipo degli abatini settecenteschi che si sottraggono alla lotta. Combatté. Fu condannato. Si beccò 6 anni di carcere in primo grado e in appello. Finì in carcere, cella di isolamento, niente sacramenti. Tenne un diario, rispose alle lettere. Si fece assolutamente docile: certo della persecuzione ma convinto a offrire il suo corpaccione e la sua anima addolorata con mitezza per un sacrificio del quale il buon Dio avrebbe attinto tesori di grazia.
Restava il giudizio della Corte suprema. Sfiducia serpeggiava ovunque. Sui giornali italiani fu scritto (Repubblica, L’Espresso) che i suoi avvocati avevano riconosciuto le colpe del loro assistito (falso!), che dunque non ci si poteva aspettare alcuna inversione di marcia dalla giustizia. Finché un giornalista insospettabile di benevolenza verso la Chiesa cattolica, si mise a studiare le testimonianze, la congruità delle prove. Si trovò davanti a una specie di istruttoria e poi di dibattimento sovietici. Il cardinale, nel 1996, al tempo del suo ministero a Melbourne, avrebbe commesso l’inaudita violenza dopo la messa pontificale, in sacrestia dove era stato seguito dai due fanciulli. Chiunque sappia di che cosa si sta parlando, sa che in tutti i sensi siamo davanti all’assurdo. Eppure silenzio. Personalmente da subito avevo segnalato insieme con pochi altri lo scandalo di una calunnia fumante, fumantissima costruita per abbattere la reputazione di un brav’uomo e insieme colpire, oltre alla sua persona, la comunità cristiana in quanto recinto dove si allevano orchi stupratori di bimbi. Ahimè ci sono stati troppi casi dove questi orrori sono accaduti e probabilmente altri sono tuttora coperti omertosamente. Ma era palese che non era questo il caso di Pell. Ma chi ti ascolta? Sostenni il dovere di ricercare la verità, e il principio della presunzione di non colpevolezza, che dovrebbero valere anche quando ci sono di mezzo i cardinali. Ed ecco il disvelamento della menzogna.
Mentre si aspettava la sentenza definitiva quello che una volta ci insegnavano essere il “Continente Nuovissimo” è stato messo sottosopra dal lavoro certosino di Andrew Bolt, reporter di Sky News Australia, ha ricostruito meticolosamente l’accaduto, con il lavoro più banale del mondo. Ha preso tra le mani le motivazioni della condanna, ha confrontato la testimonianza dell’accusatore con i tempi e gli spazi in cui si sarebbe consumato un duplice stupro, dimostrando l’impossibilità matematica, geometrica, fisica, chimica del crimine denunciato. Come il tenente Colombo si è recato sul posto e ha mimato spostamenti, ha percorso navate e sacrestia. Ha illustrato le sue scoperte. In vista dell’esame del ricorso ha invocato «che l’Alta Corte rimedi a questo scandalo». All’unanimità Pell è stato dichiarato innocente, dopo 400 giorni di isolamento in carcere.
Lo scandalo non sta nell’errore, ne accadono tanti, ma nel suo perché, nell’evidenza negata da Procure e Tribunali forcaioli che hanno ceduto alle richieste di linciaggio provenienti dalla stampa di tutto il mondo e dall’opinione pubblica locale.
Prima scaricato dal Vaticano (non una parola pronunciata a sua difesa in via ufficiale o ufficiosa, nessun promotore di giustizia o ufficiale della gendarmeria in trasferta australiana per sostenere le indagini difensive). Una volta assolto qualcuno all’interno delle mura leonine ha pensato bene di fargli credere che un suo antagonista curiale a viso aperto, il solito cardinale Angelo Becciu, avesse usato i soldi del Papa per pagare i testimoni dell’accusa. Una fandonia propalata tramite Corriere della Sera e alla quale, prima di inoppugnabili documenti che dimostrano il contrario, Pell aveva dapprima creduto.
Per rendere onore a questo grande e indomito cardinale trascriviamo alcuni stralci dell’intervista a cura di Gianni Cardinale che Avvenire pubblicò il 29 settembre 2021.
Aveva mai immaginato di dover affrontare un processo del genere e di dover passare più di 400 giorni in prigione? No, non lo immaginavo. Erano accuse francamente incredibili. Fare cose così brutte in una sacrestia dopo una Messa solenne con centinaia di fedeli. Inconcepibile, per chi frequenta abitualmente le chiese. Forse alla mia condanna in prima e seconda istanza ha contribuito il fatto che giudici e giurati non hanno mai partecipato a una Messa cattolica e credono davvero che le chiese e anche le sacrestie siano dei luoghi bui e disabitati in cui si può commettere ogni abominio…
Perché queste accuse così infamanti? Che idea si è fatto in proposito? Credo di essere stato preso di mira per la mia difesa della tradizionale visione giudeo-cristiana su famiglia, vita, sessualità. Il fattore decisivo comunque è stata la crisi degli abusi. Purtroppo in Australia ci sono stati molti casi, molte vittime, molte sofferenze. In tanti si sono genuinamente scandalizzati per questo e per come i vescovi hanno affrontato la questione. C’era e c’è tanta furia contro la Chiesa. Dopo la prima condanna mi hanno riferito di aver sentito questo tipo di commento: è possibile, forse probabile che lui sia innocente, ma la Chiesa cattolica ha fatto tante cose malvagie ed è giusto che qualcuno di loro soffra. Purtroppo è toccato a me.
Alla fine è stato assolto. E se invece la avessero condannato? Avrei continuato la mia vita in carcere. Pregando, mangiando e bevendo – ma non troppo -, assaporando l’ora d’aria.
Che cosa le mancava di più? Non potevo vedere fuori e non potevo celebrare Messa.
Perché? In carcere sono proibiti alcolici. E in Australia sono rigorosi: neanche il poco vino per l’Eucaristia è ammesso. Per fortuna c’era una buona suora, una donna forte e simpatica, che ogni settimana mi portava il Santissimo Sacramento. (…)
Chi le è stato più vicino in questa Via Crucis? Tanti. Mi hanno scritto migliaia di lettere. Da tutto il mondo. Molti sono venuti a visitarmi. In tanti hanno pregato per me. Non ho perso nessun amico. E ho ricevuto messaggi da papa Francesco e dal papa emerito Benedetto. Sono molto grato per il loro sostegno.
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