Nelle ultime votazioni che hanno avuto corso all’Onu in occasione dell’aggressione russa all’Ucraina sono emerse le spaccature planetarie tra un numero consistente di Stati africani e di taluni Stati asiatici e l’insieme degli Stati capitalisti storicamente detentori del controllo estrattivo delle risorse mondiali. Le astensioni in merito all’esclusione della Russia dal Consiglio per i diritti umani sono state numerose: si trattava, del resto, di preparare la via a quello che è l’obiettivo nordamericano e di una parte soltanto delle nazioni aderenti all’Ue, ossia espellere la Russia dal Consiglio di sicurezza dell’Onu: un obiettivo che può solo esser preparato grado per grado senza crisi improvvise. 



Sottolineo che il prestigio che Russia e Cina continuano a esercitare sui Paesi “poveri del mondo”, per usare la terminologia del grande Gunnar Myrdal, è paradossale, trattandosi di Stati capitalisti monopolistici di stato a dominazione dittatoriale e terroristica (nel caso cinese), ma determinato dalle iniquità prodotte storicamente dalle cosiddette “grandi potenze” e dal riparo da esse che si crede di poter trovare ponendosi sotto l’ala dei due Stati dittatoriali. Essi tendono così a un’alleanza sempre più forte, anche se sempre assai contrastata. Ma queste speranze illusorie sono potenti perché fondate su contrasti di potenza e sulle enormi disuguaglianze e scarsità di beni primari che sempre più si producono e riproducono nonostante tutte le retoriche consolatorie. 



Oggi aumentano a dismisura per le conseguenze della crisi alimentare, oltre che energetica, che si sta allargando a macchia d’olio in conseguenza della guerra. La Russia e l’Ucraina sono le nazioni esportatrici di grano, mais e cereali più importanti al mondo e questo ha delle conseguenze devastanti oggi che si sono interrotte le vie di navigazione nel Mar Nero per il blocco dei porti che entrambi le parti in guerra contribuiscono a sviluppare a seconda delle loro esigenze belliche. Ma le conseguenze sono ben più ampie e disvelano il problema della globalizzazione dispiegata con meccanismi di scambio ineguali, per cui i Paesi sottosviluppati forniscono materie prime per la produzione nel centro delle econome mondiali e nelle più prossime periferie, mentre tutte le periferie vengono private dei meccanismi di creazione di quelle industrie che rendono possibile uno sviluppo meno diseguale. 



Oggi si riproduce, da parte delle periferie, un processo simile a quello che diede vita all’Opec nella seconda metà degli anni Settanta del Novecento. Gli Usa, sfiancati dalla loro economia di guerra e dalla stagflazione, abbandonarono il dollaro come unità di riferimento monetario mondiale e provocarono il crollo dei prezzi delle materie prime energetiche fossili. Di qui la reazione delle nazioni di queste ultime produttrici: attuarono un monopsonio, ossia un monopolio dell’offerta, facendo mancare le forniture di fossili al Nord del mondo con un balzo enorme dei prezzi dei prodotti oil and gas, compresi i loro derivati. 

Gianclaudio Torlizzi, nella sua analisi quotidiana dell’andamento dei prezzi a livello mondiale, sottolinea da tempo che il panico che spinge all’accaparramento delle risorse alimentari sta dilagando nel mondo, sottolineando, per esempio, che l’Indonesia, nazione spesso dimenticata nelle analisi internazionali, ha sospeso le esportazioni dell’olio di palma, provocando un’interruzione delle forniture globali dell’olio da cucina per il colossale aumento del prezzo. Dinanzi a processi di questo tipo la pulsione regolatoria dell’Ue è patetica se non pericolosa. 

Si sta apprestando un “piano” (denominato Farm e ispirato al programma internazionale Covax per la distribuzione di vaccini anti-Covid) per fare fronte alla carenza di cibo provocata dalla guerra in Ucraina, grande esportatore di grano. Si mira ad aumentare la trasparenza sugli stock mondiali, garantire gli approvvigionamenti ai Paesi più a rischio e incoraggiare la produzione nelle regioni denominate “fragili”. Del resto, il presidente Biden aveva affermato: “L’emergenza cibo sarà reale, il prezzo delle sanzioni non lo paga solo la Russia ma anche i nostri alleati europei. Il rischio di carestia sarà altissimo in alcuni paesi, in Nord Africa e Medio Oriente per esempio”. Ed Emmanuel Macron, presidente di turno dell’Ue, propone ad alleati e partner un piano d’emergenza per la sicurezza alimentare mondiale. 

Ma sono i Paesi emergenti quelli più dipendenti dalle importazioni di cereali e beni alimentari di prima necessità da Russia e Ucraina. Penso, per esempio, all’Eritrea che dipende per il 100% dal grano prodotto da questi due Stati, o alla Somalia il cui rapporto di dipendenza supera il 90% oppure, ancora, al Libano, che ha recentemente confermato di avere uno stock di cereali per non oltre due settimane, all’Egitto dipendente per l’80% dalla produzione ucraina e russa. L’Egitto: ma da piccoli non ci avevano insegnato a scuola che il Nilo invadeva due volte l’anno i deserti e li trasformava in fertile terra per i fiorenti campi di grano? Sì, ma prima della guerra per l’acqua tra Egitto e Sudan con la lotta per la diga vicino alle scaturigini del Nilo.

E per quel che riguarda il mondo intero a scambio ineguale tutto si è aggravato ben prima della guerra di aggressione russa. La letteratura sullo scambio ineguale nel nostro mondo capitalistico (l’unico che abbiamo, ahimè!) è enorme, come è enorme la sofferenza che da più di due secoli pervade le popolazioni africane del Grande Medio Oriente e dell’Asia. È di questo che dovremmo discutere. E a questo che dovremmo iniziare a far fronte. I pericoli di interruzione non solo della rete di produzione e consumo, ma della stessa riproduzione sociale delle società. 

La fame si affaccia all’orizzonte e l’aumento dei prezzi non è che una cartina di tornasole: un avviso a naviganti stolti e invasi da furie regolatrici dall’alto inefficaci e sempre e solo disastrose.

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