La bara in cipresso. Le pagine di Vangelo immobili. La nebbia che avvolgeva la Basilica Vaticana. Il silenzio e le avemarie sussurrate. Il già e il non ancora. L’ultimo addio a Benedetto XVI è stato struggente e sospeso, quasi irreale. Anche l’ultima scena che la morte ha imbastito per il pontefice emerito è stata un gioco al sottrarsi, un annullamento dell’io, gigantesco per umiltà, nel grande “noi” della Chiesa.
Ancora una volta la sposa amata ha mostrato la gratitudine per l’amante, definitivamente speso nell’amore e nel servizio. Un rito solenne e semplice, quasi crudo nella liturgia esequiale epurata da ogni enfasi, da ogni eccesso retorico, da ogni ridondante appendice. Perché niente ha più peso o importanza quando si è nella pienezza del Mistero. Né le parole, né i gesti ridotti all’essenziale. Né l’appuntamento con la Storia, incrociata così tante volte e persino snobbata, in un’esistenza in cui l’umano è sempre stato orientato al divino.
Voleva salutare così Joseph Ratzinger, puntando il dito al Cielo, riecheggiando quel “Karol, mi ami tu?” che aveva commosso fino alle lacrime nell’aprile del 2005, durante un altro addio, impossibile e inimmaginabile, parossistico per emozioni e tensione, in piazza San Pietro. Allora la folla che aveva affogato Roma, inondandola da tutto il mondo, era rimasta orfana, aveva bisogno di essere presa per mano, accompagnata nella comprensione del domani ecclesiale. Joseph Ratzinger lo fece, da temporaneo timoniere, fino ad accettare un compito senile da “umile operaio nella vigna del Signore”.
Ieri la folla muta e compresa, grata e commossa, un Padre lo aveva già, rivestito di una nuova fragilità, anche lui sovrastato dalla limpida evidenza di una vita compiuta, santa, come in tante occasioni aveva già sottolineato, consegnata nella pienezza all’infinito. Francesco ha presieduto il rito dal suo nuovo trono, conforto necessario per muscoli e articolazioni doloranti, il viso serio, come sempre durante le celebrazioni eucaristiche, le parole cercate nel repertorio del predecessore, teologo, pontefice, pastore, ma soprattutto sacerdote di Cristo.
Dopo 95 anni è morto un uomo felice di aver speso la vita indagando e inseguendo il Mistero, sereno nell’abbandono totale, nutrito dalla Verità di Dio, paziente e dedito, che ha condotto nel pascolo della modernità il suo gregge, amando molto e soffrendo di più. Ingiustamente. Un uomo capace di tenerezze nascoste e di fulminanti ironie, certo e saldo sino alla fine, testimone di una fede incrollabile, ma soprattutto innamorato dello Sposo che ha atteso paziente con la lampada in mano. Sempre vigile, sempre pronto. Catturato e ferito dalla bellezza eterna di Cristo. La chiusa fulminante dell’omelia di Francesco, l’unico passo in cui si è rivolto direttamente a Benedetto, è l’espressione di una convinzione talmente radicata da apparire ovvia, “fedele amico dello sposo, che la tua gioia sia perfetta nell’udire definitivamente e per sempre la sua voce”.
Riprenderanno le analisi ecclesiali sulla Chiesa dei due papi, i tentativi di polarizzazione, le narrazioni interessate e ideologiche della convivenza tra Bergoglio e Ratzinger nel recinto di Pietro, le ricostruzioni del complesso pontificato di Benedetto XVI, gli approfondimenti sulla “teologia in ginocchio” e le visioni postconciliari di un pensatore che tutti già collocano tra i Padri della Chiesa. Ma di ieri resta quell’ultima carezza, catturata dalle telecamere, del Papa regnante al feretro del predecessore. Pudore e figliolanza. Da oggi Francesco non è più libero, come molti frettolosamente hanno sentenziato. Semplicemente più solo.
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