La morte del generale dei Carabinieri Carlo Alberto dalla Chiesa fu uno dei delitti più gravi della storia della Repubblica. E’ quanto si legge nella sentenza-ordinanza del maxiprocesso nel 1985, tre anni dopo l’uccisione dell’allora prefetto di Palermo, avvenuta nell’ambito di quella che fu soprannominata la strage di via Carini. Nell’azione mafiosa che ebbe luogo il 3 settembre 1982, a perdere la vita fu anche la moglie del generale, Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo.



Erano le 21.15 quando l’auto sulla quale viaggiavano il generale e la moglie, e guidata proprio dalla donna, una A112, in via Isidoro Carini, nel capoluogo siciliano, fu affiancata da una BMW, dalla quale partirono alcune raffiche di Kalashnikov AK-47 che uccisero i due coniugi. L’autista e agente di scorta che li seguiva con un’altra vettura morì 12 giorni dopo in ospedale, in seguito ad una seconda raffica che lo colpì, ferendolo in modo letale. Un agguato in piena regola che si andò ad inserire tra altri delitti di mafia che negli anni precedenti al suo insediamento a Palermo nel ruolo di prefetto avevano già portato alle morti di investigatori, magistrati e politici tra cui Boris Giuliano, Cesare Terranova, Piersanti Mattarella, Gaetano Costa e, in ultimo, Pio La Torre.



Attentato al generale Carlo Alberto dalla Chiesa: le motivazioni

L’attentato al generale Carlo Alberto dalla Chiesa va ad inserirsi sullo sfondo della “seconda guerra di mafia” nella quale i Corleonesi fecero una vera e propria strage con l’intento di prendere il controllo dell’organizzazione mafiosa. Quella commessa ai danni del generale dalla Chiesa fu una strage che destò grande scalpore per via delle modalità con le quali fu commessa, dal momento che l’agguato fu eseguito con una arma da guerra. Negli anni furono numerosi i dubbi che ruotarono attorno alla strage ed alla sua paternità.



Nel 2013 il boss Salvatore Riina fu intercettato nel carcere di Opera svelò al detenuto Alberto Lo Russo la sua presunta responsabilità nella strage di via Carini: “Quando ho sentito alla televisione che il generale Dalla Chiesa era stato promosso prefetto di Palermo per distruggere la mafia ho detto: ‘prepariamoci’. Mettiamo tutti i ferramenti a posto, tutte le cose pronte per dargli il benvenuto. (…) Perciò appena è uscito lui con sua moglie … lo abbiamo seguito a distanza…”. Nel 2017 il Fatto Quotidiano riportò la rivelazione del pentito Gioacchino Pennino secondo il quale il parlamentare Francesco Cosentino sarebbe stato il mandante del delitto dell’82.

Depistaggi e processi

Le indagini sull’attentato del generale Carlo Alberto dalla Chiesa furono caratterizzate da numerosi depistaggi, a partire dal pregiudicato Giuseppe Spinoni, che disse di essere stato presente sul luogo della strage ma prontamente smascherato dal magistrato Giovanni Falcone. Fu quest’ultimo magistrato, nel luglio del 1983 a firmare ben 14 mandati di cattura contro mandanti ed esecutori della strage di via Carini. L’anno seguente Buscetta rivelò a Falcone di aver saputo da Badalamenti che l’agguato al prefetto palermitano fu “sicuramente un atto di spavalderia dei corleonesi che avevano così reagito alla sfida contro la mafia lanciata da dalla Chiesa”.

Nel maxiprocesso in cui entrò anche il delitto di dalla Chiesa, nel dicembre 1987 furono condannati all’ergastolo Michele Greco, Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Filippo Marchese, Giuseppe Greco e Benedetto Santapaola mentre Mario Prestifilippo fu dichiarato non più perseguibile poiché morì ucciso nei mesi precedenti. La sentenza fu ribaltata in Appello alla fine del 1989 con l’assoluzione di tutti gli imputati per l’omicidio dalla Chiesa ma nel 1992 la Cassazione annullò le assoluzione ritenendo le motivazioni illogiche e dispose un nuovo processo. Nel 1996 i pentiti Calogero Ganci e Francesco Paolo Anzelmo si autoaccusarono asserendo di aver preso parte alla strage e furono riaperte le indagini che tre anni dopo portarono a processo Antonino Madonia, Vincenzo Galatolo, Calogero Ganci e Francesco Paolo Anselmo considerati gli esecutori materiali. Nel 2002 in appello furono condannati all’ergastolo Madonia e Galatolo mentre Ganci e Anzelmo furono condannati a 14 anni di carcere in quanto gli furono riconosciute le attenuanti e lo sconto di pena in quanto pentiti.