Un martire dello Stato è colui che perde la propria vita per aver difeso il popolo, la legalità, la giustizia. Carlo Alberto Dalla Chiesa è considerato martire per aver cercato di far penetrare questi valori all’interno delle case degli italiani, e dei palermitani in particolar modo. In un momento di forti tensioni e paure dovute alle vicende degli anni precedenti, tra cui anche il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro da parte delle Brigate rosse, il generale tenta di portare serenità in un paese dilaniato dagli scontri politici. Dopo aver basato buona parte della sua vita sulla lotta contro il terrorismo, a Dalla Chiesa viene affidato, nel 1982, l’incarico di recarsi a Palermo. Nel capoluogo siciliano, l’uomo viene nominato prefetto e si presta a combattere la mafia con la speranza di poter ottenere in Sicilia gli stessi grandi risultati che aveva ottenuto in numerose città italiane, svolgendo al meglio e con passione i suoi doveri per proteggere lo Stato. Il suo incarico durerà poco, contrariamente alle aspettative, poiché verrà interrotto dall’intervento di Cosa nostra, che ordinerà la sua uccisione a pochi mesi dall’inizio del suo mandato.



Dalla Chiesa ha sconvolto la lotta alle organizzazioni mafiose cambiando la prassi, modificando e velocizzando le lunghe operazioni burocratiche e ottimizzando il lavoro di investigazione. Ha voluto migliorare il suo lavoro nel rispetto delle leggi per consentire un contrasto più efficace dello Stato alla mafia. Alcune delle particolarità del modo di operare di Dalla Chiesa erano  il suo essere alternativo e innovativo, caratteristiche che lo accompagnano anche dal punto di vista umano. Secondo lui, difatti, il lavoro del prefetto doveva evolversi, coinvolgendo direttamente uomini e donne a contatto con le organizzazioni mafiose. I cittadini onesti vedevano in lui un tramite, un ambasciatore delle istituzioni dello Stato. Indebolire la mafia avvicinando le persone era la sua arma vincente, l’asso nella manica che gli ha permesso di indebolire i suoi avversari e di farsi temere dai capi di Cosa nostra.



“Qui è morta la speranza dei palermitani onesti”, dice il prefetto Luigi Viana durante il suo discorso per la commemorazione dei trent’anni dalla scomparsa di Dalla Chiesa. La speranza però è ancora presente e la possiamo osservare nei piccoli gesti quotidiani di tutti coloro che si rifiutano di assecondare la mafia e per questo ogni giorno rischiano la vita; la notiamo nella Chiesa e in ogni associazione di volontari che si propongono di aiutare le vittime di mafia, la vediamo nelle produzioni letterarie e cinematografiche che continuano a denunciare quello che accade. La speranza non è morta e non morirà fino a quando qualcuno si solleverà e si dichiarerà contrario a sottomettersi a chi pretende di avere il Potere basandosi sulla violenza e sul terrore.  Alla base del successo delle organizzazioni mafiose sta di fatto la paura, alla quale contribuisce un’omertà radicata all’interno della società. Quando si tratta di morte della speranza si parla in realtà della morte di chi le ha dato voce, di chi ha dato il coraggio ad altri per uscire allo scoperto e affrontare i pericoli e le difficoltà di chi si dichiara contro la mafia. 



Con la scomparsa di Dalla Chiesa, come succederà poi con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, viene meno il coraggio che chi spera ha e trasmette agli altri. La speranza che i cittadini nutrono nei confronti di chi cerca di arginare le organizzazioni criminali è sempre presente e sarà comunque, prima o poi, la causa della loro fine perché, per citare un altro coraggioso portatore di speranza, “la mafia è una montagna di merda”.

Camilla Groppo

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