Sta per uscire, per i tipi dell’Istituto Italiano di Storia della Musica, un volume che è, in effetti, una scoperta: l’edizione critica, a cura di Lorenzo Tozzi (grande critico musicale e grande studioso del barocco romano) delle cantate di Carlo Rainaldi (1611-1691). E’ un corpo musicale sino ad ora ignoto in quanto trattato in un articolo del musicologo tedesco Hans Joachim Marx del lontano 1969, allora pubblicato in italiano sulla «Rivista Italiana di Musicologia». Il volume conterrà anche due CD con parte delle cantate di Rainaldi; un terzo è in arrivo e completa il ciclo.



Rainaldi è noto come uno principali architetti del Barocco romano, non come musicista. E’ nel novero dei sei maggiori architetti dell’epoca. A lui, si devono, tra l’altro, capolavori come la chiesa di Santa Maria in Portico in Campitelli (16331667), la facciata di Sant’Andrea della Valle (16611665), il progetto di notevole valore per due chiese gemelle in piazza del Popolo (16621675), progetti per Sant’Agnese in Agone (fabbrica in cui fu sostituito da Francesco Borromini); la facciata absidale di Santa Maria Maggiore, la facciata del duomo di Monte Compatri. Nel 1666 si occupò del progetto e della costruzione della chiesa di San Gregorio Magno a Monte Porzio Catone; la chiesa del Suffragio in via Giulia (16691675), la cappella Spada alla Chiesa Nuova e l’altare maggiore in San Gerolamo della Carità. Opera sua è anche la monumentale tomba di papa Clemente IX, sempre a Santa Maria Maggiore. Opere studiate nei maggiori testi di architettura ed oggetto di vero e proprio pellegrinaggio da parte dei turisti che visitano la Capitale.



Solamente pochi esperti, anzi eruditi, erano a conoscenza della sua attività musicale. Nella prefazione del volume in corso di stampa, Paolo Portoghesi scrive: «Non meraviglia che un personaggio sensibile e raffinato coltivasse, come secondo amore, quello per la musica. La musica oltretutto gli offriva, praticata come abituale intrattenimento dell’alta società, un mezzo di avvicinamento personale al mondo della nobiltà e della corte pontificia che offriva all’architetto preziose occasioni di lavoro. Documentata è la sua dimestichezza con alcune delle grandi famiglie romane come gli Orsini, duchi di Bracciano, i Barberini, i Borghese, i Maidalchini e i Pamphili». Uno degli strumenti che Carlo suonava, oltre al cembalo, l’organo, l’arpa e la lira, era la misteriosa «rosidra» invenzione di Paolo Giordano Orsini, duca di Bracciano della quale nulla sappiamo.



Nel suo linguaggio musicale spiccano l’intonazione lirica, la grazia e la vivacità, ma anche una inclinazione ad ammettere palesi dissonanze che nel contesto delle cantate prefigurando futuri sviluppi del discorso musicale. Sulla base di queste considerazioni molto parziali, Portoghesi individua affinità con il linguaggio architettonico di Rainaldi. Dall’intonazione intimista e sentimentale delle cantate si può cogliere un riflesso anche nelle sue architetture per la intensità con cui si rivolgono all’osservatore «aprendosi» verso di lui attraverso forme di curvatura concava e convessa che individuano e privilegiano un’area di fruizione frontale.

Si sa pochissimo della vita di Rainaldi; di lui non c’è neanche un’immagine. L’insistenza nei testi delle cantate sulle delusioni amorose, sulle pene, sulle disillusioni, sulla coincidenza di amore e sofferenza («nel mar del pianto nascon mie gioie» si legge in un’aria il cui testo è del poeta Mario Cevoli) possono far pensare a un celibato pieno di relazioni amorose; ma forse si tratta piuttosto di un ossequio a una moda allora imperante. Rainaldi, certamente, operava in una Roma «globalizzata» sotto il profilo culturale: quattro delle sue cantate sono su testi del poeta britannico Patrick Carey, opportunamente tradotti in italiano. Erano gli anni in cui Cristina di Svezia, in esilio dal suo Regno nordico, aveva creato a Roma una vera e propria accademia internazionale, che culminò con la costruzione del primo teatro aperto al pubblico. Verosimilmente, Rainaldi faceva parte dell’entourage della ex- Regina; uno dei suoi lavori – di musica sacra e quindi non incluso in questa edizione critica che riguarda le cantate – è addirittura non in italiano ma in svedese.

Parliamo dell’edizione critica con il Maestro Tozzi che la ha curata: «La scelta dei testi mette le ali alla fantasia compositiva di Rainaldi: sono testi di conio barocco dalle immagini patetiche spesso metaforiche, ma di agevole lettura oltre la cortina mitologica umanistica e arcadica. Elemento di spicco è la coerenza tonale tra le diverse componenti della cantata. E’ chiara la predilezione di Rainaldi per alcuni poeti. Davvero poche le cantate di Rainaldi (circa un terzo) di cui è indicato il nome dell’autore del testo poetico: Francesco Melosio per E chi mel crederà e il duetto Vaghi raipupille ardenti; Carlo Eustachio per Uccidetemi purfieri tormenti, giorgio giustiniani per il duetto Che dici, Amore?, Mario Cevoli per per Deh, lasciatemi in preda al mio tormento e Patrick Carey per Non replicarmi, Amor, Con lusinghe di sirena, Dì, mio cor Pupillette, ben si avvede».

«Non meravigliano certe licenze armoniche spesso dettate da fini espressivi, né la mancanza di una destinazione strumentale (essendo la pratica del basso continuo ornai consolidata), l’anticipazione dei ritardi, la non alta estensione delle voci acute, certi residui di “madrigalismi” nella scrittura melismatica corrispondente a talune parole (come “onde”, “sparsi”, “avvampo”, “tormento”, “cantando”, “volo”, “mar”, “sospira”, “fuoco”), non arditi belcantismi virtuosistici ma semplici sottolineature melodiche, l’indicazione – talvolta non sviluppata musicalmente ma solo accennata a parole – di ritornelli strumentali, l’indicazione delle cantate solo con l’incipit delle stesse e mai con la forma prescelta (cantata, madrigale, canzone, aria o simili), né il fatto che nelle variazioni strofiche, in cui canto e basso restano eguali ma il testo è diverso, la seconda strofa non sia trascritta musicalmente per esteso, ma solo annotata per la parte poetica. Quando invece la seconda strofa è musicalmente scritta per esteso, questo offre una interessante documentazione sull’arte della variazione seicentesca».

«E’ anche da notare che in genere le cantate erano scritte da musicisti o al massimo da celebrati cantanti, ma Rainaldi vi si dedicava nei rari spazi concessigli dai molti impegni che lo vedevano presente nelle maggiori fabbriche romane come architetto. Per lui quindi la musica era un piacevole svago, che poteva però servire a creargli nuovi importanti contatti e per rendersi ancor più gradito ai nobili committenti romani».

«Nelle cantate di Rainaldi il tema dominante è quello di un amore contrastato o non ricambiato. Certamente nelle cantate si registra una certa indeterminatezza sia tonale che modale (per la ondivaga presenza della terza o modale e della settima o sensibile), ma soprattutto in alcuni punti una mentalità più contrappuntistico-orizzontale che armonico-verticale essendo il il discorso musicale più plausibile melodicamente che talvolta giustificabile armonicamente».

Una scoperta, quindi, tutta da assaporare.