Sulle pagine del quotidiano La Stampa è stata pubblicata un’intervista a Carlo Verdone, tratta dal libro “Cinema neorealista” scritto da suo padre, Mario. Raccontandosi, il regista tra i più noti del territorio italiano, ha ripercorso proprio l’esperienza del cinema neorealista, che per lui è stato una vera e propria ispirazione che gli ha permesso di sviluppare un pensiero, ed un occhio, critico nei confronti della realtà e dalla sua trasposizione cinematografica.



Parlando del neorealismo, infatti, Carlo Verdone sostiene che lo considera “un modo di raccontare la realtà per quello che è, abbandonando il modo calligrafico del cinema precedente”. Le cineprese dei neorealisti finiscono, così, per vagare “dentro un paese distrutto, osservando la classe operaia in miseria e l’impellente bisogno di ricostruzione”, il tutto con una predominante “atmosfera di disperazione“, un “reale malessere” con le sue “ipotetiche speranze”. In particolare, Carlo Verdone racconta di essere stato colpito da “come in questi film la recitazione accademica dell’attore scomparisse a favore del personaggio che sembrava preso dalla strada”.



Carlo Verdone, il neorealismo e De Sica

Guardare un film neorealista, spiega ancora Carlo Verdone, “era come se si fosse atterrati in quei luoghi in quel momento, in quel periodo storico e sociale in modo autentico. Non si percepiva alcun artificio. E poi la drammaticità. Si entrava dentro una realtà cruda fatta di miseria e ricerca di dignità. Sembravano quasi dei lavori documentaristici”. Questa, secondo il regista, “è la grandezza coraggiosa e rivoluzionaria del cinema neorealista”.

Rimanendo in tema, ma parlando del film Roma città aperta, di Roberto Rossellini, Carlo Verdone ricorda quando il grande regista si presentò a casa della sua famiglia. Raccontò, ricorda, “che ‘non avevo mezzi tecnici, non so nemmeno io come sia riuscito a [farlo]. Mi mancavano gli stativi, le bandiere, persino le lampade”. Ma nonostante questo realizzò un grandissimo film. Ma poi, racconta Carlo Verdone, “dal 1947 in poi la politica si è resa conto che il Neorealismo era una brutta pubblicità per l’Italia. Giulio Andreotti disse che non era eticamente corretto sostenere film che davano un’immagine miserabile” e interruppe i finanziamenti. Infine, raccontando se stesso, confessa che il film che più l’ha segnato e ispirato “è Ladri di biciclette” (di Vittorio De Sica), un vero e proprio mantra che l’ha guidato nel suo cinema.