Dimenticate i maiali dalla stazza imponente, sporchi e ammassati negli allevamenti intensivi. Dimenticate anche il tipico colore rosa e la prolificità da record. E pensate che per circa 6mila anni l’aspetto del suino è stato ben diverso: un animale dal manto scuro, nero o rossastro, solitamente con setole lunghe e rigide, che scorrazzava nei boschi e si cibava di ghiande, tuberi e radici. Dotato di buona muscolatura e con un peso di 70-80 Kg (oggi i suini del circuito Dop devono essere tra 160 e 176 Kg), viveva al massimo tre anni ed era un caposaldo del sistema economico delle famiglie italiane ed europee. L’allevamento all’aperto e l’alimentazione controllata permettevano di avere una carne nutriente, grassa, saporita e gustosa, ideale per i ceti più poveri perché non necessitava di costose spezie o del pregiatissimo sale.



Tutto comincia a cambiare all’inizio dell’Ottocento: da una serie di esperimenti genetici messi a punto in Inghilterra si arriva al maiale com’è noto oggi nell’immaginario collettivo. Nasce infatti la Large White (o Yorkshire), razza ottenuta Oltremanica dall’incrocio di scrofe locali e verri asiatici di diversa provenienza: un suino più pesante, prolifico, resistente e meno aggressivo e muscoloso dei predecessori. In una parola, più efficiente. E in linea con le richieste dell’industria, interessata alla produzione di massa, redditizia e standardizzata.



Come tutti i processi storici, anche la predominanza del suino “prodotto in serie” è avvenuta per gradi. A farne le spese, decennio dopo decennio, proprio le razze di maiale nero, meno convenienti e allettanti per allevatori e aziende.

Negli ultimi trent’anni abbiamo assistito a una riscoperta delle specialità prodotte da queste razze antiche, la cui storia è legata a doppio filo a quella dell’uomo fin dal Neolitico. Le ragioni sono diverse: consumatori e chef sono sempre in cerca di novità, specialmente in un segmento tradizionale come quello dei salumi. Se poi la novità consiste nel recupero di una razza antica, ancora meglio. Ma c’è di più: sono salumi con un profilo nutrizionale di tutto rispetto, con meno grassi saturi, più grassi polinsaturi come Omega 6 e Omega 9 (presenti anche nell’olio di oliva) e proteine in abbondanza. Tanto che nel 2015 il Nero di Calabria ha pure vinto il premio Medusa come miglior prodotto salutistico. Niente male per un alimento di solito bandito dalla dieta.



C’è poi il fascino di un processo produttivo rispettoso dei tempi della natura: i suini neri necessitano dei loro spazi, del loro cibo e delle loro attenzioni. La resa finale non è compatibile con gli omologhi da allevamenti intensivi in termini di quantità. Ma nemmeno si possono paragonare la qualità, la marezzatura, il gusto e il sapore di carni, prosciutti, salami, pancette e altre prelibatezze ottenute da Mora Romagnola, Cinta Senese, Nero dei Nebrodi, Nero Casertano, Nero Apulo Calabrese e Sardo, per citare le sei razze autoctone riconosciute, ciascuna con le sue peculiarità. Sono state salvate dall’estinzione da allevatori caparbi (pensiamo al pregevole lavoro di Filiera Madeo in Calabria) a partire da pochi esemplari, in alcuni casi addirittura poche decine. Altro discorso, invece, per le razze “ricostituite”: il Nero di Parma e il Nero di Lomellina, frutto di incroci genetici che hanno meritoriamente ricostruito suini con caratteristiche simili ai capi originali scomparsi.

Ma quali sono i numeri del comparto? Stiamo parlando di circa 400 allevamenti, come fa sapere l’Associazione nazionale allevatori suini, per una produzione di poche decine di migliaia di capi su tutto il territorio italiano: una nicchia, certo, e tale resterà per un bel pezzo. E poi diciamola tutta: il fatto di essere una produzione limitata non è forse un ulteriore elemento di fascino?

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