La discussione in corso in Parlamento circa le “Disposizioni in materia di divieto di produzione e di immissione sul mercato di alimenti e mangimi sintetici” – sostenute dal ministro Lollobrigida – giunge opportuna nel fare chiarezza su un tema intricato.
La narrazione pertinente le qualità nutrizionali dei cibi, l’impatto sull’ecosistema delle diverse forme di produzione e il rapporto con le malattie è venuta dilagando negli ultimi trent’anni. L’obbiettivo dichiarato dei media è quello di colmare una lacuna conoscitiva per educare il consumatore orientandolo verso scelte “consapevoli”. Ma queste ricostruzioni sono ispirate ad una visione per lo più ideologica, ed hanno seminato confusione nel cercare di coniugare messaggi contraddittori (come si può propagandare le proteine da insetto come più salutari rispetto alla carne quando contemporaneamente si promuove la “bistecca” realizzata in laboratorio?).
Le proprietà organolettiche e nutrizionali di un alimento dipendono non solo dalla sua composizione grezza (espressa in termini di contenuto proteico, lipidico, carboidratico e dalla presenza di vitamine ed altri elementi essenziali), ma altresì dalla specifica struttura che, nel caso della carne, non consiste solo di fibrocellule muscolari, ma include tessuto connettivo, grasso e numerosi altri elementi cellulari presenti nel microambiente, inclusa una quota di microrganismi che si integra con il microbiota dell’organismo umano. Questo costrutto non è frutto della mera addizione di singoli componenti, ma il prodotto di una storia che ha coinvolto non solo l’animale, bensì il contesto ecologico, psicodinamico, nutrizionale in cui l’organismo vivente è vissuto ed è stato allevato. Il prodotto deve inoltre dimostrare di essere sicuro per il consumo, e sovrapponibile nella composizione nutrizionale e per qualità sensoriale alla carne di animali da allevamento, cosa che non è possibile certificare in alcun modo.
A riprova di questo assunto, chi oggi supporta la carne artificiale preferisce ricorrere ad una sineddoche, sottolineando il valore della parte – “le proteine artificiali” – rispetto al tutto – “la carne”. In questo modo la categoria delle “proteine” ha finito con il sostituirsi al “cibo”. Concentrare l’attenzione sulle “proteine” permette di estinguere i confini ontologici tra alimenti animali e non animali, e di riorientare culturalmente la percezione collettiva della nutrizione finalizzandola ad una narrazione estranea non solo alla tradizione, ma alla stessa scienza dell’alimentazione. Si afferma che la carne sintetica permetta di prevenire numerose malattie e mantenere uno stato di salute ideale, essendo “più sicura” rispetto alle sue controparti convenzionali. In realtà questa affermazione non è sostanziata da specifiche indagini. Non è infatti possibile escludere la possibile contaminazione microbica, e d’altro canto, è un errore privare completamente gli alimenti della loro componente microbica che serve a costituire il microbiota umano (la “flora intestinale”). Negli esseri umani si trovano tra le 500 e 10.000.000 specie differenti di microorganismi che ci aiutano a digerire numerosi composti e a produrre sostanze essenziali (vitamina K), assicurando la corretta funzionalità di molti apparati.
Non sono finora stati condotti studi volti ad indagare in quale misura l’alimentazione con cibi sintetici incida sulla qualità e la composizione del microbiota ma è certo che il microbiota ne verrà modificato. E sappiamo che alterazioni del microbiota concorrono alla genesi di numerose patologie, cancro incluso.
L’affermazione per la quale i cibi sintetici sono privi di antibiotici è priva di fondamento, dato che codesti composti vengono utilizzati nelle colture cellulari, ed è inevitabile che finiscano per essere integrati nel prodotto finale. Le colture richiedono inoltre la presenza di ormoni e Fcs (siero di vitello). La presenza di questi fattori pone una serie di preoccupazioni. In Europa è già vietata la presenza di ormoni ed antibiotici nella carne di allevamento, considerato che anche piccole quantità di tali molecole possono facilitare la diffusione dell’antibiotico-resistenza o promuovere la crescita di cloni tumorali.
In secondo luogo, è paradossale che per produrre carne sintetica si debba ricorrere a siero prelevato da bovini. Le quantità richieste sono di ordine industriale e imporrebbero il sacrificio di numerosissimi animali per ottener il sangue necessario a produrre quella stessa carne che verrebbe poi inspiegabilmente “scartata” dal processo industriale. Un vero e proprio “paradosso” su cui le aziende sostenitrici del cibo sintetico non hanno finora dato alcuna risposta convincente.
Inoltre, l’uso di questi sieri presenta costi elevatissimi. I reagenti richiesti per la produzione di carne sintetica richiedono fermentatori con una capacità superiore a 100.000 litri, una ingegneria complessa e processori ad elevato consumo energetico. Produrre cellule “muscolari” da staminali è solo l’inizio. Raggiunta una certa massa critica, le cellule devono trasformarsi in fibre muscolari vere. La maggior parte degli studi di fattibilità si basa sui costi pertinenti il raggiungimento dei primi steps. Al momento non esistono metodi in vitro per generare un prodotto caratterizzato da fibre muscolari con adeguata concentrazione di proteine contrattili, sebbene sia proprio questa componente a conferire alla carne valore nutrizionale e accettabile consistenza. La differenziazione completa del costrutto sintetico richiede sistemi di coltivazione con sistemi sofisticati di microperfusione, apparati di stimolazione elettrica per mimare l’attività contrattile e la stimolazione meccanica, inclusione di elementi adeguati allo sviluppo di terminali nervosi, cellule vascolari, strutture tendinee e cellule immunitarie e adipose.
La ricerca in queste aree è ancora agli inizi e comporterà costi aggiuntivi il cui impatto ambientale non può essere sottovalutato come avviene attualmente, basandosi su stime teoriche basate su ipotesi e semplificazioni eccessive. Il contenuto proteico del prodotto sintetico così ottenuto è comunque lungi dal rassomigliare a quello tradizionale, presentando proteina a basso valore biologico e carenze di numerosi elementi e vitamine. Il procedimento è inoltre inefficiente, dato che sembra che oltre le prime 20 replicazioni il processo vada incontro ad una sorta di “blocco” dovuto ad “invecchiamento” precoce.
Questi alimenti possono presentare comportamenti imprevedibili ed è dubbio che risponderanno in modo analogo alle loro controparti naturali nel corso dei processi di conservazione, cottura e preparazione normalmente utilizzati per la preparazione delle vivande.
Un ulteriore rischio sanitario è costituito dal possibile sviluppo di proteine e prioni alterati in ragione dell’elevato tasso di replicazione cellulare imposto alle colture. I sieri utilizzati devono infatti essere monitorati per escludere la probabile compresenza di prioni. I prioni sono costituiti da proteine con anomala configurazione terziaria che altera numerose funzioni cellulari, specialmente a livello neurologico, determinando un insieme di patologie cerebrali tra cui l’encefalopatia spongiforme trasmissibile del bovino (Bse) e la malattia di Creutzfeldt-Jakob nell’uomo, associate al consumo di carne o derivati ematici, incluso il siero Fcs, ottenuti da animali infetti.
Non è infine da escludere che il processo favorisca l’emergere di nuove proteine la cui tossicità/allergenicità resta da verificare. Per esempio, l’uso di glutine come idrolizzato nelle colture può molto probabilmente determinare la presenza di allergeni nel prodotto finale. Come risultato dell’espansione cellulare accelerata in condizioni innaturali, è probabile che vengano a prodursi anche alterazioni genomiche, a causa dell’introduzione di geni esogeni. Anomalie a carico dei cromosomi sono state rilevate già nel corso dei primi step produttivi, con conseguente “precoce invecchiamento” cellulare e arresto nella produzione di massa muscolare.
Nel cercare di trovare soluzione al problema si è pensato di utilizzare la stessa strategia utilizzata dai tumori per garantire una proliferazione incontrollata: bloccare i geni onco-soppressori. Non sembrerebbe una gran soluzione! Queste modifiche porterebbero ad etichettare la “carne sintetica” come Ogm e ciò aprirebbe un contenzioso non irrilevante e renderà impossibile adeguarsi alle normative vigenti.
La vaghezza che ammanta le previsioni – sia scientifiche sia industriali – circa l’introduzione della carne sintetica sul mercato, inizialmente prevista per il 2017 (!) si associa all’opacità che avvolge i processi produttivi, i cui protocolli non sono finora stati messi a disposizione delle università e delle agenzie di regolamentazione. La valutazione condivisa dalla maggior parte degli studi scientifici ritiene che il supporto ai cibi sintetici si richiami ad una “narrativa semplicista, che pone principalmente l’accento sulle emissioni di gas serra, ignorando gli attributi nutrizionali e dietetici degli alimenti tradizionali. Per quanto i consumatori possano essere sensibili a tematiche sempre più foraggiate dalla propaganda aziendale – come il ridotto impatto ambientale e il benessere degli animali – è altamente improbabile che tali argomenti risultino poi determinanti nell’indirizzare le scelte del consumatore, come evidenziato da innumerevoli rassegne statistiche. In sintesi, come sottolineato dall’autorevole Nature Biotechnology, l’enfasi che le aziende pongono sulla carne sintetica non è assolutamente confermato dagli studi scientifici”.
I rischi possono essere molti e l’insieme delle incertezze è tale da sconsigliare di proseguire lungo una strada che per innumerevoli motivi – etici, culturali, nutrizionali ed economici – si presenta dal suo inizio tanto impervia e irta di insidie.
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