Caro direttore,
a seguito dei numerosi articoli apparsi sul suo giornale volevo integrare la narrativa esposta con la mia esperienza; qualcuno mi ha fatto notare che quanto racconto potrebbe essere eccessivamente pessimista o distruttivo e francamente un po’ dispiace, ma a volte è necessario, specie in questo periodo di campagna elettorale, riprendere alcuni aspetti di quotidianità che l’astrazione di molti dibattiti politici sembra proprio trascurare. Ed innanzitutto la constatazione, ormai unanime nelle categorie produttive, che ci stiamo avviando verso un disastro più che annunciato, di fronte al quale non sembra assolutamente evidenziarsi alcuna strategia ragionevole di salvaguardia, anzi sono sempre coltivate apparenti soluzioni ma che in realtà ben poco incidono.
Una prima esemplificazione riguarda la filiera produttiva dei materiali per l’edilizia, che risulta gravemente penalizzata, come molte altre peraltro, dai costi energetici, così da rinviare se non sospendere la produzione di diversi prodotti (ad esempio le ceramiche o specifici materiali tecnici); non potendo totalmente trasferire il rincaro dei costi sull’utente finale perché insostenibile di fronte alla concorrenza di prodotti d’importazione, certamente è meglio non produrre che produrre in perdita. Ma l’esito pernicioso di tale politica commerciale, in qualche modo inevitabile, di fronte all’accentuarsi dell’ormai cronica carenza di prodotto è quello innanzitutto di aprire spazi di mercato a soggetti esteri con la concreta possibilità che divengano poi così ampi da rischiare di non potere più assorbire in futuro il prodotto italiano (ammesso e non concesso che si continui a produrlo). Ma anche di “avvelenare” un mercato già fortemente in tensione sia di prezzi quanto di disponibilità di materiale, non solo per la congiuntura generale ma anche per quella “sciagurata” scelta del cosiddetto 110% di cui stiamo ancora aspettando il danno conclusivo per le molte aziende che, confidando in una facile riscossione dei crediti fiscali, ora si trovano in forte crisi di liquidità (spesso anche in conseguenza dell’attrattiva di un facile guadagno che una norma scellerata e scarsamente presidiata da effettivi controlli poteva prospettare).
Un altro aspetto trascurato è il tema delle compensazioni per il “caro prezzi” negli appalti pubblici, introdotto nella seconda metà del 2021 come norma derogatoria al principio generale del divieto di revisione dei prezzi presente nel codice degli appalti e poi definitivamente strutturata nel decreto aiuti bis del 2022; norma che ha lo scopo di evitare il fermo dei cantieri. Avevo avuto già modo di scrivere su queste pagine circa il fatto che per l’anno 2021 ci fossero due metodi di calcolo delle compensazioni diversi per ciascun semestre del tutto farraginosi, inadeguati e di difficile applicazione. Con il 2022 il calcolo delle compensazioni ha assunto una forma più definita e lineare, certificando di fatto un aumento dei prezzi di almeno il 20% rispetto al 2021 ed obbligando alla revisione semestrale degli stessi; tutto questo dà un indice evidente della gravità della situazione.
Ma ora in fase di applicazione si prende coscienza che la liquidità per attuare questa norma non è affatto detto sia disponibile; così che la stazione appaltante che non abbia una disponibilità finanziaria propria (e sono molte almeno fra i comuni) dovrebbe attingere ad un unico fondo nazionale gestito dal ministero delle Infrastrutture con la “solita” piattaforma informatica in cui inserire ogni sei mesi le richieste di compensazione. Esito per le imprese? I soldi per le compensazioni arriveranno se tutto va bene dopo 6-8 mesi dalla certificazione del credito (che normalmente avviene dopo circa due mesi dai lavori effettivamente svolti) ed in base ad un riparto del fondo (notoriamente sottofinanziato) che rischia di valere assai meno di quanto effettivamente speso e confermato dalla stessa stazione appaltante; il tutto poi depauperato dal tasso inflattivo che, se fosse ancora nei termini presenti, abbatterebbe ulteriormente l’effettivo ristoro essendo che lo stesso rischia di arrivare a quasi un anno dai lavori. Con un ulteriore vantaggio per lo Stato per il minore onere effettivo determinato dall’inflazione (e qualche dubbio che tali assurde tempistiche non siano del tutto casuali appare più che lecito).
Non è poi che il tanto lodato Pnrr, la cui sola messa in discussione pare possa suscitare oscuri fantasmi, sia certo esente da osservazioni; pur essendo tutto perfettibile, alcune storture ideologiche sono così evidenti da destare immediatamente forti perplessità. Una per tutte laddove nelle gare di appalto, anche di valore relativamente modesto come qualche centinaia di migliaia di euro, viene introdotto l’obbligo dell’assunzione del 30% di personale giovane e 30% di personale femminile in caso di aggiudicazione. Senza volere porre in essere alcuna discriminazione, una ditta nell’edilizia che abbia realmente del personale operativo (e non solo una facciata di carta con poi tutti i lavori eseguiti in subappalto) dove trova il 30% di carpentieri, muratori, elettricisti giovani e per un’altrettanta parte femminile? Realisticamente quanti idraulici o piastrellisti donne sono presenti sul mercato del lavoro? Ed in questo momento, con la nota e cronica carenza di personale, dove si trovano giovani da assumere in tale rilevante misura?
Ed inoltre chi implementerà i progetti del Pnrr quanto a fronte degli investimenti importanti messi in essere non viene incrementato il personale tecnico per la gestione ed il controllo degli stessi come sta avvenendo?
Non posso trarre conclusioni generali dalla mia limitata prospettiva, ma certamente posso affermare che i problemi sono gravi ed importanti, tali da non permettere certamente “sonni tranquilli” per il futuro, nonostante autorevoli rassicurazioni anche pubblicamente espresse.
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