La guerra in Ucraina sta facendo lievitare i prezzi di un prodotto base per la dieta italiana: il grano tenero, quello per intenderci che serve per pane e pasticceria, ha visto i listini aumentare del 33% in un mese, sfondando per la prima volta nella storia la soglia dei 40 euro a quintale. Una fiammata che sta mettendo sotto forte pressione l’intera filiera industriale legata a questa materia prima.



E che, soprattutto, promette di cambiare le regole del gioco del mercato. Già, perché gli effetti del conflitto continueranno a farsi sentire a lungo, ben oltre la sua eventuale e auspicabile conclusione. Il monito viene da Vincenzo Divella, amministratore dell’omonimo gruppo alimentare, che non nasconde preoccupazioni tanto sul fronte contingente quanto in chiave prospettica.



Qual è la situazione oggi sul fronte delle importazioni da Ucraina e Russia?

La nave che lo scorso 27 febbraio avrebbe dovuto caricare nel porto di Azov ben 30 mila quintali di grano tenero acquistati per nostro conto ha potuto finalmente completare le operazioni di imbarco. Ma al momento è ferma, come almeno altre 60 imbarcazioni, in attesa delle autorizzazioni necessarie per passare lo stretto di Kerch e quindi procedere verso Istanbul. Non sappiamo se questo sia da attribuire a un preciso ordine o piuttosto alla possibilità, al momento non verificata, che il passaggio sia stato minato. Il punto è però che la nave è ferma. E questo significa che ci siamo trovati costretti a mettere in campo piani alternativi: ci siamo quindi riforniti nei porti di Napoli e Manfredonia dove erano disponibili rimanenze, rimpiazzando sostanzialmente il carico bloccato. È chiaro però che questa operazione ha rappresentato un aggravio di costi: l’approvvigionamento in Italia è costato 15 euro in più a quintale. Il che significa un aumento secco di circa il 40%. 



Alla luce di questo scenario, sono probabili rincari? E sono ipotizzabili anche rischi concreti sulla disponibilità dei prodotti legati al grano per i consumatori?

Al momento abbiamo fatto ricorso a giacenze che avevamo stoccato in precedenza, riuscendo così a limitare gli aumenti: a fronte di maggiorazioni sul grano tenero che sfiorano il 50%, al momento abbiamo ritoccato i listini del 25-30%. Fino alla fine di aprile o al più a metà maggio, quindi, dovremmo potere tenere sotto controllo la situazione. Il problema vero si potrebbe porre dopo: la campagna granaria in Italia si tiene nel corso del mese di giugno e questo calendario lascia quindi scoperto un arco temporale nel quale la produzione potrebbe essere a rischio. 

Le importazioni da Russia e Ucraina non possono essere compensate da forniture provenienti da altri Paesi?

Sul fronte del grano tenero ci aspettiamo in effetti un contributo da altre aree, tra cui in particolare Francia, Australia e Canada. È invece sub iudice il ruolo di Paesi come Ungheria, Serbia e Bulgaria che al momento hanno sospeso le esportazioni, in attesa di verificare entro i primi mesi dell’estate quali eccedenze rispetto al fabbisogno interno potranno essere immesse sul mercato. Ma va detto che, se anche riuscissimo a diversificare il paniere dei Paesi da cui importiamo, dovremo fare i conti con un fenomeno inflattivo: l’approvvigionamento nel perimetro europeo impone solo qualche giorno di trasporto, mentre gli acquisti intercontinentali arrivano a richiedere periodi anche superiori al mese. Con evidenti e immaginabili maggiori costi. E il problema potrebbe persistere anche oltre la fine del conflitto.

Ci può spiegare meglio?

In Russia e Ucraina non si tra provvedendo, o lo si sta facendo solo parzialmente, alle semine per la prossima stagione. E questo significa che anche nel 2023 continueremo a doverci confrontare con una forte limitazione delle importazioni da questi Paesi. Senza contare che sullo sfondo va anche considerata, almeno per la produzione di biscotti, la carenza della produzione russa e ucraina di olio di semi di girasole, utilizzato come sostitutivo dell’olio di palma. Insomma, dobbiamo prepararci al fatto che l’approvvigionamento del grano tenero resterà un nodo da sciogliere almeno per un’altra stagione, sempre che lo scenario post-bellico consenta poi una ripresa degli scambi commerciali. E dunque dobbiamo prepararci a cambiare la geografia delle importazioni, con conseguenti probabili ritocchi dei prezzi all’insù.

Le stesse criticità che toccano il grano tenero valgono anche per quello duro, impiegato per la pasta?

In questo caso, il quadro in cui ci muoviamo è differente: si è registrato un aumento di 1 o 2 euro a quintale in un mese, un rialzo fisiologico, su cui la guerra non ha influito. Né riscontriamo criticità sul versante delle scorte. Va quindi considerato del tutto inopportuna l’ansia di trovare gli scaffali dei supermercati sforniti di pasta: le corse alle scorte che si sono registrate negli ultimi giorni sono insomma completamente ingiustificate. È invece plausibile che nei prossimi mesi anche la pasta subirà rincari, imputabili però non tanto ai costi della materia prima, quanto piuttosto al caro-energia che impatta sui processi di produzione industriale. E che rischia di mettere davvero in serissima difficoltà soprattutto i pastifici più piccoli, quelli cioè che hanno le spalle meno larghe per affrontare periodi di forte tempesta come quello che stiamo vivendo.

Infine, quali sono le richieste che l’industria legata al grano avanza alle istituzioni per superare questa difficile fase?

Tramite la nostra associazione di categoria, Unipi (Unione degli Industriali Pastai Italiani) e attraverso quella dei Mugnai Italmopa, abbiamo portato all’evidenza dell’Esecutivo le problematiche che vive il nostro settore. Trovando in alcuni casi accoglienza fattiva. Penso, per esempio, alla questione delle accise su benzina e gasolio, che aveva portato l’autotrasporto a fermarsi e che ha trovato risposta nei tagli decretati per il mese di aprile. Di certo, però, i tempi della politica spesso non corrispondono ai nostri. L’industria ha bisogno di ricevere riscontri in tempo reale, di contare su interventi solidi che consentano agli imprenditori di pianificare i mesi a venire. Il rischio, altrimenti, è quello di vedere messe fuori gioco molte realtà. E tra queste, a pagare il conto più salato sarebbero soprattutto le imprese di dimensioni minori. 

(Chiara Bandini)

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