NEW YORK – Battery Park, domenica mattina. Un vento freddo soffia su Manhattan. Sto aspettando il traghetto che mi porterà a Liberty Island e poi a Ellis Island, due luoghi emblematici di New York City perché simboleggiano la memoria dell’immigrazione negli Stati Uniti. La Statua della Libertà era la prima immagine dell’America offerta ai migranti dopo la loro traversata dell’Atlantico. Il centro di accoglienza di Ellis Island, invece, era l’ultima tappa di un viaggio che per molti di loro era iniziato settimane prima e terminava con il famoso “Welcome to America”, la formula magica che tra il 1892 e il 1954 ha trasformato 16 milioni di migranti in cittadini americani. Uno striscione appeso al muro del molo cita John Fitzgerald Kennedy: “Gli immigrati hanno ovunque arricchito e rafforzato il tessuto della vita americana”. Mentre passo attraverso la sicurezza, uguale a quella di un aeroporto, non ho idea che questo giro turistico è un viaggio di iniziazione che sto per intraprendere.



Sul traghetto guardo la Statua della Libertà che si staglia in lontananza. Prima fermata. L’emozione è grande quando sbarchiamo ai suoi piedi. Pensiamo di conoscerla già così bene, invece mi sorprende l’emozione che suscita. Non sono le sue dimensioni gigantesche a sorprenderci, ma la morbidezza della sua espressione, la tenerezza del suo viso mescolata alla forza del suo braccio teso che porta la torcia e guida l’umanità a cui ora questa statua appartiene.



Seconda fermata, Ellis Island, l’isola delle lacrime, come la chiamavano i milioni di esuli che passavano attraverso le porte del centro. Si dice che non è mai per caso che si visita Ellis Island. Come loro, entro nella grande sala di accoglienza, ormai vuota e maestosa (poteva ospitare fino a 5mila persone). Mi lascio trasportare da ciò che rende Ellis Island un luogo unico: ciò che si sente lì e che non viene mostrato. Il rumore, la folla, il caos che deve aver regnato, il disaggio che devono aver provato tutti dopo aver lasciato tutto, ma anche l’eccitazione di una nuova vita che stava per iniziare. Allineati in file di quattro, fino a 10mila al giorno, a volte parlando 25 lingue diverse, 16 milioni di storie personali, motivazioni, ambizioni, 16 milioni di sogni ma anche la paura, l’ansia, il dubbio. Uomini e donne, soli o con le loro famiglie, ricchi o poveri, istruiti o no, formati o no, di tutte le razze e religioni, italiani, irlandesi, tedeschi, austriaci, ungheresi, russi e ucraini, inglesi, svedesi, norvegesi, francesi, turchi…



Lo scrittore Georges Perec dice: “A partire dalla prima metà del XIX secolo, una tremenda speranza scosse l’Europa per tutti i popoli schiacciati, oppressi, schiavizzati e massacrati, per tutte le classi sfruttate, affamate, devastate dalle epidemie, decimate da anni di carestie e carestie, cominciò a esistere una terra promessa: l’America”.

E questo è stato certamente il genio dell’America e una delle ragioni della sua ascesa fulminea, della sua creatività, del suo dinamismo e del fascino che il paese esercita ancora oggi: aver potuto accogliere un flusso di persone senza precedenti nella storia dell’umanità, avendo come unico controllo all’ingresso sul territorio, una visita medica e 29 domande di base. La stragrande maggioranza di loro, cinque ore dopo il loro arrivo sull’isola, si trovavano nelle strade di New York, totalmente liberi di muoversi, pionieri di un Nuovo Mondo che aveva visto in loro qualcosa di diverso dalla miseria; uomini e donne che portavano la loro intelligenza, creatività, il loro lavoro e la loro cultura per metterli al servizio di un paese in costruzione, per integrarsi in una comunità e così dare vita al popolo americano.

Migranti e figli di immigrati hanno contribuito a rendere grande un paese: Albert Einstein, Sergey Brin, cofondatore di Google, Joseph Pulitzer, Steve Chen e Jawed Karim, i fondatori di YouTube, Arianna Huffington, Elon Musk, Steve Jobs, Frank Sinatra… Per 100 milioni di americani oggi, è la storia della loro famiglia che questo luogo straordinario racconta, perché almeno uno dei loro antenati è sbarcato lì, su un’isola ad un centinaio di metri da Manhattan, sperando in una vita migliore grazie ad un’uguaglianza di opportunità che lo scrittore James Truslow Adams nel 1931 ha chiamato il sogno americano.

La scelta storica degli Stati Uniti di aprirsi ai migranti e la capacità del paese di accoglierli non deve far dimenticare le motivazioni di un paese in piena espansione e bisognoso di manodopera, né le difficoltà di vita e di integrazione che i migranti hanno dovuto affrontare. Ma riconoscere la pazza scommessa di cui l’America è stata capace, l’ambizione che ha dimostrato per tutti i suoi cittadini, ci obbliga anche a riconoscere un successo innegabile.

Sul traghetto che mi riporta a Manhattan, completo questo viaggio di iniziazione. Guardo lo skyline di New York e sento la presenza materna della Statua della Libertà alle mie spalle. Come loro prima di me, guardo la città, ipnotizzata dai suoi grattacieli e dalla promessa di ricchezza e potere che contengono. Ripenso a tutte le foto di questi uomini e donne appese alle pareti del centro di accoglienza. Raccontano delle loro angosce e delle loro speranze, ma anche della fede che avevano nel nuovo mondo che li accoglieva. Il loro sguardo mi trafigge e mi costringe a riflettere sulla visione attuale che abbiamo dei migranti che attraversano i mari oggi e l’accoglienza che ricevono. Ellis Island racconta in un certo modo la storia universale dell’immigrazione. Per capire il presente e preparare il futuro, è necessario conoscere il passato. Le parole della poetessa Emma Lazarus incise sulla base della Statua della Libertà risuonano:

Dammi la tua stanchezza, i tuoi poveri, le 
tue masse rannicchiate desiderose di respirare libere, 
i miserabili rifiuti della tua riva brulicante, 
mandami questi, i senzatetto, sbattuti dalla tempesta, 
alzo la mia lampada accanto alla porta d’oro! 

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