NEW YORK – Vivo a New York da due anni e quando mi chiedono “Allora, com’è?”, so che la risposta che ci si aspetta è: “Fantastica, la adoro”. In effetti, New York è una città che viene esentata da qualsiasi critica o rimprovero. Se uno trova un difetto, entra immediatamente nella categoria degli snob, e se uno mette in dubbio la qualità della vita nella Grande Mela, è considerato fuori moda. Ne parliamo come se fosse un essere umano, le diamo le caratteristiche: la città che non dorme mai, il cui cuore batte cento volte all’ora, una città che amiamo e che ci manca come una droga se ce ne allontaniamo.
New York ha tutti i superlativi: più milionari, più grattacieli, più diversità, idee, innovazione, eccessi, sia in termini di libertà che di divieti. New York è il posto dove si deve essere per chi ama la musica o il teatro, per chi vuole raccogliere fondi, per chi vuole avviare un’impresa, per chi vuole creare. Anche i 42 chilometri della maratona di New York sembrano valere più di quelli di Parigi o Berlino. Tutto è festoso e bonario. La città è “uno shock fisico”, un’energia che scatena tutto ciò che è in ciascuno di noi. Tutto sembra possibile e ci si sente trascinati dalla frenesia dei golden boys ai piedi dei palazzi, degli avvocati d’affari e dei ricchi dell’Upper East Side, dall’intellettualismo woke degli studenti della Columbia University e dagli artisti e designer di tendenze di Tribeca e Soho.
È un dato di fatto che New York sia così, per chi la conosce nella vita reale o solo attraverso i film, le foto, i libri e le canzoni ad essa dedicati. Ma non appena si esce dall’incantesimo, si comincia a vedere attraverso la maschera, e la città rivela un altro volto, altrettanto reale ma questa volta senza artifici. La stessa frenesia, ma nella vita di tutti i giorni, meno appariscente ma altrettanto stimolante. È la vita dei “meno ricchi” che fanno due lavori per sopravvivere, che prendono la metropolitana per ore per andare al lavoro e tornare a casa, spesso fuori Manhattan, dove è diventato impossibile vivere senza un reddito molto alto. Il costo degli alloggi, del cibo e dell’assistenza sanitaria continua ad aumentare e secondo la United Way of New York City, circa la metà dei newyorkesi in età lavorativa faticherà a soddisfare le proprie esigenze di base quest’anno, quando erano 36% nel 2021.
New York è una fonte di energia, ma impone anche un ritmo senza concessioni, il rovescio della medaglia della frenesia, l’obbligo di aver visto l’ultimo spettacolo a Broadway, di aver mangiato nell’ultimo ristorante aperto, dove la lista d’attesa corre per mesi e dove la persona all’ingresso gioca a fare il padrone del mondo perché sa che accettando o rifiutando di trovarti un tavolo può inserirti nella categoria dei vip o lasciarti in mezzo ai comuni mortali. Dimenticata la spontaneità di una cena improvvisata con gli amici o il brunch del fine settimana deciso per capriccio: se i newyorkesi vogliono esistere, devono pianificare, anticipare e avere successo. Il fallimento è di cattivo gusto e sbagliare non è una opzione.
“Make America great again” ha esortato Donald Trump, great e niente di meno è concepibile. Il denaro è la bussola e in questa lotta per l’esistenza, chi è sconfitto, ferito o stanco diventa invisibile, vittima dell’esclusione sociale. Nelle strade e nella metropolitana, disertata dall’epidemia di Covid e dallo smart working dai più abbienti, prevalentemente bianchi anglosassoni, un altro volto della città appare a chi vuole vederlo, un volto su cui possiamo leggere paura, solitudine, vergogna e anche coraggio. Alcuni scelgono di chiamarlo crimine, potremmo anche parlare di povertà, di malattia mentale. Non è roba da sogno, ma forse abbiamo bisogno di vivere a New York e non solo di sognare di vivere in una città che non esiste.
Alla domanda “Com’è New York?”, rispondo sempre con delle sfumature. La città ha i difetti delle sue qualità, è complessa e allo stesso tempo facile da capire, generosa ma arrogante, magnifica e così sporca, eccitante ma anche estenuante. Incarna il sogno americano, ma la povertà di parte della sua popolazione è un affronto alla dignità. la mia risposta è una contraddizione e lo sono anche i miei sentimenti nei suoi confronti: non so se la amo, ma mi manca quando ne sono lontana. Forse dovremmo fare come lo scrittore Philippe Delerm che ha scelto di scrivere un libro su New York “per non andarci, per conservare il segreto di una città essenziale che non potrebbe sopportare di essere minimamente violata dalla realtà”.
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