Se c’è un film che rappresenta e condensa l’essenza mitologica del cinema hollywoodiano classico, questo probabilmente è Casablanca, anche più di Via col vento, perché il film diretto da Michael Curtiz nel 1942 non era una “eccezione” di dimensioni colossali come il film dedicato a Rossella O’ Hara, ma una produzione prettamente nel solco della Warner, costata circa un quarto rispetto al capolavoro diretto da Victor Fleming. Ciò che rese grande quindi il film con Humphrey Bogart e Ingrid Bergman è qualcosa di prettamente cinematografico, che ha a che fare coi suoi valori intrinseci.
Il film, tratto da una pièce di Murray Burnett e Joan Alison mai rappresentata, vede protagonista Rick, il gestore di un bar di Casablanca in cui cerca di mediare tra la presenza dei nazisti legati al Governo collaborazionista francese e le istanze di ribellione della popolazione. La sua neutralità viene rotta dall’arrivo di Ilsa, sua ex-fiamma, assieme al marito Victor, membro della resistenza cecoslovacca ricercato dalla Gestapo.
Un dramma spionistico dal forte e meraviglioso côté sentimentale, scritto da Julius e Philip G. Epstein con Howard Koch (una sceneggiatura considerata la migliore mai scritta negli Usa), che riesce con straordinaria fluidità e personale leggerezza a mescolare l’avventura e il melodramma con temi di fortissima attualità politica, essendo uno dei primissimi film di una major a schierarsi esplicitamente contro la Germania nazista.
La grandezza di Casablanca, evidente anche a più di 80 anni di distanza, è nel perfetto dosaggio dei suoi ingredienti e nel curatissimo rapporto tra i personaggi, le loro azioni, il loro valore morale e il casting epocale (oltre ai due divi, una fila di attori impressionante, da Claude Rains a Peter Lorre, da Sydney Greenstreet): Curtiz è stato uno dei maggiori professionisti del cinema dell’età dell’oro di Hollywood, abilissimo regista di azione e avventura, capace di trarre il fondamento mitico da quasi ogni film che si trovava di fronte. È quello che fa con questo script (premiato con l’Oscar come la regia e il film, prodotto da Hal B. Wallis), ovvero preoccuparsi di far emergere la profondità di ogni sequenza e dialogo prima che il valore della produzione, come invece era d’uopo in molte pellicole dell’epoca.
In un film quasi tutto chiuso dentro le mura del Rick’s Bar, il regista sa costruire un’atmosfera densissima che ha permesso al film di raggiungere lo status di cult, e fu uno dei primissimi, forse il primo, ad arrivarci: studiato e analizzato tanto dagli accademici quanto dai semplici appassionati, recitato a memoria lungo le moltissime sue battute memorabili, smontato e ricomposto per dargli un impossibile seguito, Casablanca è un film mitico perché, come ha ragionato Umberto Eco in un suo celebre saggio, sa usare gli stereotipi e i cliché raggruppandogli e dandogli forza di archetipo, mitica appunto.
Restaurato e riportato nelle sale cinematografiche da Warner Bros per celebrare il suo centenario, Casablanca è un’opera di cui si è detto e scritto tutto e che, al netto del peso storico e simbolico che ha ormai acquisito, è un film che brilla di forza purissima, non una forza estetica o stilistica, ma quasi epica, in cui la lotta dei sentimenti e quella della guerra assumono connotazioni titaniche con elementi apparentemente piccoli, minimi: una canzone da suonare ancora per suggerire un amore passato, Parigi come incantato luogo simbolo di un rimpianto, la Marsigliese canto di libertà per eccellenza (se ne ricorderà John Huston in Fuga per la vittoria), una grande amicizia suggellata da un aereo che porta via un grande amore.
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