Ne uccide più il moralismo una tantum del razzismo. Questo c’è, sia chiaro, nella società e quindi anche negli stadi. In piccole dosi, in grandi dosi, non ha importanza. Sicuramente non è un’emergenza nazionale, state buoni.

Faccio un sondaggio personale: non conosco neanche un razzista, anzi conosco molta gente che le vittime del razzismo le aiuta. Ma il razzismo non ha importanza neanche per quasi tutti i finti dotti che in questi giorni si strappano le vesti per i cori contro Mario Balotelli. Il loro intento è alzare un polverone, magari utilizzando questo fenomeno per creare la paura dell’avversario politico di turno. A loro non interessa migliorare l’ambiente degli stadi italiani, a loro non interessa neanche battere i razzisti. Anzi, questi fanno il loro gioco, offrono argomenti per dibattiti, per articoli, per paginate web. Poi tutto finirà e non se ne parlerà più fino alla prossima volta.



Io credo che invece vada affrontato il vero tema che comprende anche il caso razzismo. E cioè il bisogno educativo, quasi disperato, che ha questo Paese. Il nostro dramma è l’assenza di cultura, in generale, e di cultura sportiva in particolare. Il “razzismo da stadio” germina lì. Il “razzismo da stadio” è quello che secondo i tifosi dell’Inter, e anche secondo molti osservatori, non è razzismo. Ricordate? Scrissero a Lukaku dicendogli, dopo gli insulti dei tifosi del Cagliari: “Non te la prendere, non è razzismo, è che tu sei il più forte dell’Inter e così sperano di colpirti. Noi facciamo così con i migliori delle altre”. Non è razzismo? Però è stupidità e allora è anche peggio, se permettete.



Il moralismo una tantum strepita e denuncia, ma non risolve nulla. Perché non bisogna solo sorvegliare e punire, denunciare e cantare nel coro degli indignati, bisogna cambiare la mentalità di chi frequenta e vive attorno agli eventi sportivi. Bisogna andare oltre.

L’altra sera mi sono visto una bella (nella confezione giornalistico-documentarista) storia di Matteo Marani su Sky, quella di Vincenzo Paparelli, tifoso laziale ucciso da un razzo da guerra sparato dalla Curva Sud, a più di cento metri di distanza il 28 ottobre 1979. Il fatto agghiacciante, oltre all’omicidio di un essere umano, al dolore di una famiglia spezzata e all’assurdità del gesto, sono le parole dell’omicida, Giovanni Fiorillo: “Non avevo intenzione di uccidere”. E’ lo stesso di quelli che dicono: io non sono razzista. Bene, allora non sparare razzi e taci, così i dubbi scompaiono del tutto.



Però il ricordo dell’omicidio di Paparelli è drammatico soprattutto per le parole che lo avvolsero. Le stesse che ascoltiamo oggi per il razzismo, le stesse che abbiamo ascoltato a ogni morto ammazzato per il calcio e da allora non sono stati pochi. Però non è cambiato nulla. Perché non sono cambiate le persone. E allora meno vesti stracciate e più fatti, perché nell’ambiente del calcio italiano mancano cultura, rispetto, senso della decenza.

Riflettete su questo: in nessuna nazione del mondo si parla tanto di arbitri come da noi. L’emergenza razzismo finirà, fino alla prossima bordata di “buuh”; l’emergenza stadio, no.

Voi che state strepitando per il razzismo sentite questa. Un giorno in uno stadio italiano, in tribuna, quindi in un luogo dove, in teoria, non si dovrebbero annidare facinorosi, una mia amica che si era presentata con la sciarpa della squadra “nemica” è stata invitata a metterla via. I razzisti sono la schiuma sulla birra del problema, raschiateli pure via, ma poi dedicatevi alla pinta piena.