Il giorno dopo che la presidente Meloni ha ritenuto di criticare, nel suo discorso in Senato, alcuni concetti contenuti nel Manifesto di Ventotene, affermando di non riconoscersi in quel modello di Europa, la Rai ha mandato in onda, in prima serata su Rai1, Radio2, RaiPlay e in Eurovisione, la prima puntata del programma Il Sogno, in cui Roberto Benigni ha difeso con grande enfasi quel Manifesto e quell’idea di Europa.
A molti è sembrato perlomeno strano che il servizio pubblico radiotelevisivo abbia fatto un controcanto così plateale all’orientamento della presidente del Consiglio, e proprio alla vigilia di una delicata riunione del Consiglio europeo, dove si confrontano molteplici e diverse visioni dell’Europa tra i Paesi membri. Si sta parlando di opportunità nel maneggiare contenuti scottanti addirittura in Eurovisione, certamente non di rimpiangere la censura.
Abbiamo chiesto un commento ad Alberto Contri, che è stato consigliere della Rai dal 1998 al 2002 e amministratore delegato di Rainet (oggi RaiPlay) dal 2003 al 2008.
Contri, lei conosce l’azienda molto bene. Come è potuto succedere uno “one man show” su un tema politico così divisivo?
Dai miei tempi la governance della Rai è molto cambiata, anche se i principi di fondo sono rimasti gli stessi.
In che senso cambiata?
Il Cda può stabilire degli indirizzi, ma sta poi alla responsabilità dei direttori di rete, di struttura, di programmi, delle case di produzione e persino degli autori, decidere cosa e come va in onda.
Ma la politica influisce ancora molto?
Appena entrato in Rai mi sono accorto che la quasi totalità dei dirigenti e dei giornalisti rispondeva innanzitutto al partito politico o al potere che ne aveva sponsorizzato la nomina.
Era così anche in passato?
Ai tempi di Bernabei e della DC al governo, si rispondeva alle sue correnti, ma il timone era decisamente in mano a un direttore generale che oltre a scegliere i professionisti migliori incideva assai decisamente sui contenuti. Con tutte le critiche che si possono fare a questo genere di gestione, sfido chiunque a dimostrare che i contenuti della tv di quel periodo non siano stati di assai elevata qualità, sia nell’informazione che nell’intrattenimento, e in particolare, nella promozione della cultura.
Poi che cosa è successo?
Con l’avvento del tripartito le cose si sono complicate, al punto che Enzo Biagi ricordò amaramente che per poter lavorare si doveva assumere un democristiano, un socialista e un comunista. E poi uno bravo.
E oggi?
Vedo che le cose sono peggiorate con l’abbassarsi del livello culturale dei politici di riferimento, come ad esempio i 5 Stelle, per i quali “uno vale uno”, quando non è affatto vero, specie in una azienda in cui le capacità professionali e tecniche fanno la differenza.
Sta dicendo che la Rai è di fatto una nave senza pilota, dove ogni ufficiale può decidere la direzione che vuole?
Un’immagine un po’ forte, che però non è tanto lontana dal vero.
Perché?
Analizzando i contenuti di tv e radio per i seminari che tengo ancora dopo tanti anni di insegnamento universitario a contratto, posso affermare che culturalmente la maggioranza dei professionisti della Rai sono stati infettati dal virus woke a base di un complessivo e grave relativismo etico, intriso di gender, inclusione, obiettivi ESG, follie climatiche. E da una forma di pensiero unico sulla politica internazionale del tutto in linea con le imposizioni che Marc Zuckerberg di Meta ha ammesso di aver ricevuto dall’FBI per conto di Biden.
Poi però qualcosa è successo.
Poi è avvenuto che poco prima della vittoria di Trump le più importanti multinazionali hanno deciso che il woke era morto. Lo stesso Larry Finck, Ad del Fondo BlackRock, ha ammesso che con il Green Deal si era esagerato troppo, mentre una nuora di Rotschild, Lynn Forester, ha addirittura sostenuto che “gli ESG vanno gettati nel cestino”.
E in Rai?
In Rai continuano a imperversare con le loro tesi catastrofiste i Tozzi e i Mercalli, nonostante recentemente oltre 2mila scienziati abbiano denunciato come false le conclusioni delle varie COP sull’ambiente. Questo per dire che nel corpaccione dell’azienda di servizio pubblico radiotelevisivo c’è un personale inamovibile anche nelle proprie convinzioni. Mentre in America e nel mondo sta cambiando tutto, l’Europa e l’Italia assomigliano sempre di più all’atollo con gli ultimi giapponesi.
Ma da che mondo e mondo qualcosa cambiava quando cambiava il governo.
Io credo che attualmente ci sia il timore di fare modifiche di rilievo per paura di essere accusati del reato di occupazione, affinché nessuno possa dire che oggi la Rai sia TeleMeloni. Così arriviamo all’assurdo che alcuni giorni fa l’europarlamentare del Pd Pina Picierno ha strepitato in ogni modo di fronte all’invito di Giletti al giornalista Vladimir Soloviev di partecipare al suo programma, in quanto lo riteneva un propagandista di Putin. Riuscendo ad ottenere che l’invito fosse ritirato. Non oso pensare cosa sarebbe successo se un intervento del genere lo avessero fatto i vertici Rai con un ospite di diverso orientamento.
Che cosa si potrebbe fare concretamente?
Non si dovrebbe aver paura di effettuare un po’ di salutari cambiamenti, dato che ci sono alcuni fortini fortemente presidiati da una sinistra radical-chic (autori, conduttori, ospiti) sia in radio che in Tv e nei Tg, che gridano vendetta per la loro smaccata e incessante propaganda politica quotidiana. Non si tratta di usare il lanciafiamme, come a volte si meriterebbero, ma di insegnare a rispettare maggiormente il pluralismo.
Cosa blocca tutto questo?
Temo che gli attuali vertici si ritrovino imbrigliati in una governance che definire un pantano è dire poco. Manca il cosiddetto presidente di garanzia (che in passato non ha mai funzionato, né con uomini né con donne) e non si capisce cosa ci stiano a fare un Ad e un Dg quando sarebbe il momento di avere una guida unica e certa. Penso inoltre che un presidente con una forte visione etica e professionale potrebbe aiutare.
Ma con Benigni come la mettiamo?
Penso che conoscendolo non avrebbero dovuto dare a Roberto Benigni questo programma. Ci sono state pressioni in alto loco come alcuni sostengono? “So che il Presidente ci sta guardando”, ha detto Benigni. Pressioni del suo manager che gestisce gran parte degli artisti e delle produzioni?
Era così importante averlo?
Dato che secondo attenti osservatori Benigni non rappresenta più granché se non un paio di successi molto lontani nel tempo, non si capisce nemmeno il timore di essere accusati di censura per non dargli questo sproporzionato spazio in prima serata, in concomitanza con radio ed Eurovisione. Una cosa mai successa. E sarebbe il caso che i vertici Rai spiegassero il perché di questa scelta di diffusione europea davvero inaudita.
Come valuta la puntata?
Assai noiosa e retorica, una serie di predicozzi su un’idea di Europa che nei fatti si sta dimostrando un’autocrazia ben poco democratica. E che sta distruggendo l’industria automobilistica, oltre che spingerci a indebitarci fino al collo per armarci in previsione di una guerra che nessuno ha dichiarato e che nessuno minaccia. Come sentiamo invece ripetere tutti i giorni e con grande leggerezza da giornalisti e anchor.
Ma Il Sogno di Benigni ha fatto oltre 4 milioni di ascolti…
Oramai siamo abituati ai giochini con l’Auditel: sommando tv, radio, rete, Eurovisione, figuriamoci.
È stato un successo reale?
Può aver contato molto la curiosità, ma temo che la seconda puntata farà assai meno. Intanto è uscito un articolo su Vanity Fair assai illuminante: gli italiani non sono più abituati ad assistere a monologhi più lunghi di due minuti.
Quindi successo o flop?
Chissà. Lo capiremo alla prossima puntata.
(Max Ferrario)
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