Il “caso Bigon” offre più di uno spunto ai confini del grottesco. La consigliera “dem” della Regione Veneto è stata sospesa da vicesegretaria regionale del suo partito per il suo rifiuto di votare un ddl regionale sul fine vita appoggiato, invece, dal Pd. La sua astensione è stata decisiva nella bocciatura di un provvedimento sostenuto peraltro – a titolo personale – dal governatore leghista del Veneto, Luca Zaia.



Anna Maria Bigon, cattolica, ha subito motivato il suo gesto come “obiezione di coscienza”, ma nel 2024 questo non le ha risparmiato una “sanzione amministrativa” propria dell’antico Pci di Palmiro Togliatti. Allora la punizione – di fatto “sommaria” come quelle dell’Urss staliniana – scattava inesorabile quando qualche esponente grande o piccolo della gerarchia osava sfidare il “centralismo democratico” del partito. Il caso più noto resta l’espulsione del gruppo del Manifesto nel 1969: segretario era allora Luigi Longo, successore del Migliore, indicato da taluni come vero fucilatore materiale di Benito Mussolini e insignito poi dell’Ordine di Lenin dal Cremlino.



Non hanno sorpreso le modalità di una sorta di “processo di Verona” interno ai “dem”: veronese è Bigon così come il segretario provinciale del Pd, Franco Bonfante, che ha eseguito la sentenza “per tradimento”. Il punto di partenza di quest’ultimo sono stati i Ds, mentre quello di Bigon è stato il volontariato cattolico (“Sono un avvocato, sono sposata e sono una mamma di due figli” ha ripetuto di sé stessa Bigon ancora nelle ultime ore). Partigiani “rossi” contro partigiani “bianchi”: un classico della Resistenza nel Nordest. E poi il riflesso tardo-pavloviano dell’“organizzazione” del partito: la stessa che da Roma è subito corsa a liquidare il caso come locale, lavandosi le mani anche del malumore aperto di un big come Graziano Delrio, “capocorrente” di Bigon.



È un classico della politica, anzi della storia veronese il non ritrovarsi mai in sintonia con quanto accade a Venezia, più spesso ad accusarne contraccolpi (ultima l’elezione a sorpresa del sindaco Damiano Tommasi, indipendente di centrosinistra incuneatosi fra un uscente FdI come Federico Sboarina e l’ex sindaco Flavio Tosi, leghista scismatico verso Forza Italia). E anche nel caso Bigon i “dem” veronesi/veneti si sono verosimilmente preoccupati di apparire zelanti e compatti quando nel centrodestra locale si stanno aprendo crepe vistose, anzitutto attorno alle mosse di Zaia. Ma lo spunto più rilevante va cercato forse nel merito più squisitamente “valoriale” del passaggio.

Uno Zaia via via meno “leghista doc” e sempre più auto-identitario (basti pensare all’autonomia differenziata appena approvata) aveva pensato bene di marcare tatticamente una propria apertura politico-culturale su un grande tema nazionale caro al centrosinistra. Ma proprio in Veneto – proprio a Verona – i dossier bioetici sono difesi con fermezza da un bastione “partisan”, raccolto attorno al Forum delle famiglie, vicinissimo al presidente leghista della Camera Lorenzo Fontana.

Visto con gli occhi di un funzionario di partito il caso Bigon è quindi inaccettabile: proprio una “catto-dem” veronese ha rovinato un’operazione politica che avrebbe ufficializzato una frattura fra Zaia e il centrodestra (soprattutto FdI, arrembante in regione) e piantato una bandiera non da poco in un’area-chiave per la “Nuova Resistenza” (è veneto anche Alessandro Zan, primo firmatario del Ddl-bandiera contro l’omotransfobia). Agli occhi della consigliera Bigon, invece, era inaccettabile piegare la propria coscienza di cattolica a un puro gioco politico: che pure avrebbe portato al Pd un notevole risultato in una fase critica come la campagna elettorale per le europee. E ora il caso Bigon promette di ritorcersi contro una leadership Pd già in crescente difficoltà. E non è – evidentemente – solo una questione di “disciplina di partito”, qualunque cosa significhi nel 2024.

È certamente significativo che Elly Schlein, nata politicamente a Bologna, si ritrovi in questo momento contro sia l’anima post-comunista del Pd emiliano (incarnata dal governatore modenese Stefano Bonaccini) sia quella post-popolare, propria del reggiano Delrio. Ma l’obiezione di coscienza (cattolica) della consigliera veneta (“donna e madre”, come rivendica la “cristiana” Giorgia Meloni, che però non è sposata come Bigon) sembra interrogare direttamente l’hub del cattolicesimo democratico nazionale che ha sede proprio attorno alla cattedrale di San Petronio.

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