Il vecchio vizio di prendere quel che c’è e scappare non è mai tramontato. Dai tempi di Woody Allen la politica italiana ha imparato la lezione. Quando ti capita l’occasione di prendere un posto quello diventa tuo, non del partito o della coalizione. Tutto tuo.
Nel Pd, che oramai ha due partiti dentro, uno sotterraneo e pronto al salto e l’altro fieramente con la testa a guardare il glorioso passato da sinistra, tutto ormai è lecito. La segreteria costruita da Elly è stata un cazzotto in faccia ai centristi residui e ai perdenti delle primarie, una vera e propria esclusone di persone ed idee a favore di chi nel partito non ha neppure militato. Così chi lo ha fondato, e viene da un storia di posizioni riformiste ma moderate, se ne sta semplicemente andando, senza neppure un minimo di dibattito interno. La scomposizione appare la soluzione più utile a tutti. Via chi non è allineato e spazio ad esterni con un Dna di sinistra.
Il punto è che questa semplificazione rischia di produrre molti più danni del previsto. Enrico Borghi che lascia il Pd e tiene l’incarico è un precedente che difficilmente si potrà ignorare. Non tanto per la posizione sua particolare, era già accaduto prima che Riccardo Villari nel 2008 cambiasse schieramento rimanendo a capo della Vigilanza Rai; quanto per la legittimazione che i nuovi dirigenti del Pd dimostrano di non avere nella guida dei gruppi a Camera e Senato.
Si dirà che contarono poco e i voti si prendono alle elezioni. Vero. Ma con la legislatura agli inizi e con una situazione internazionale molto poco chiara la perdita di componenti dei gruppi e di posizioni in Parlamento può influire non poco su assetti di futuri governi o coalizioni in Parlamento. Espellere i non allineati, semplicemente non coinvolgendoli nella vita del partito, non appare cosa saggia. Anzi, rischia di diventare un detonatore per un’ancor più grossa deflagrazione se i risultati elettorali delle tornate a venire non saranno più che eccellenti.
Borghi andava trattenuto con il dialogo e andava trovata una sintesi; il processo di purificazione interno al Pd, infatti, appare in contraddizione con la sua tradizionale difesa della diversità e della tolleranza. È come dire che si vuole un società aperta e coesa ma un partito chiuso e massimalista. Le due cose non dialogano e possono rappresentare un corto circuito intollerabile.
Che poi Borghi tenga il ruolo, non è cosa certamente “normale” visto che si tratta di una pozione di coordinamento tra i gruppi ed i servizi di intelligence e che Borghi svolge una funzione di garanzia ampia e collettiva per il gruppo che lo ha individuato. Vedremo nelle prossime ore se ci sarà sul punto un qualche accordo per recuperare la posizione senza scontentare Borghi, ma di certo anche questo passaggio è quantomeno sgrammaticato e pericoloso, perché toglie sostanza al ruolo di oppositore che il Pd può esercitare solo se trova nella sua dimensione collettiva una strada di coesione.
Nulla è infatti più pericoloso che autorizzare, politicamente, la diaspora di personalità e lo svuotamento dei gruppi parlamentari senza che la cosa sia bilanciata da una reale crescita del partito in termini di competenze ed autorevolezza su temi tanto delicati come l’intelligence, che oggi appaiono sempre più appannaggio di figure non organiche al Partito democratico ed alla sua segreteria. La dimensione del Pd come riferimento anche istituzionale è e resta un valore che la Schlein non può perdere se vuole agire sul piano politico nazionale ed internazionale come un leader.
Ora che la frittata è fatta i rimedi sono due. Il primo sarebbe recuperare per il Pd la posizione nel Copasir, Borghi voglia o meno, ma per altro verso la segreteria deve fare chiarezza politica nei gruppi e gestire con precisione questa fase, rendendo chiare le sue intenzioni sui “non allineati” e sui loro esponenti nei gruppi parlamentari. Diversamente si rischia che questi casi si moltiplichino e non per colpa di chi va, ma per la responsabilità di chi non ci parla prima con chiarezza.
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