Gli uiguri e la Chiesa Cattolica controllati in Cina, le semi-libertà nei regimi come Bielorussia, Cuba e Venezuela, e ora addirittura un vescovo della chiesa Usa: il rapporto tra religione e “sorveglianza digitale” è qualcosa di sempre più stretto, come nota il giurista Pasquale Annichino nel suo editoriale del 27 luglio sul “Domani”. Lo scandalo Burrill, il vescovo figura chiave della Conferenza Episcopale americana costretto alle dimissioni a seguito di un’inchiesta del quotidiano “The Pillar” per sue presunte frequentazioni in locali gay – è l’apice di un percorso che da Occidente ad Oriente vede nel controllo della religione e dei suoi protagonisti uno strategico “laboratorio” per la sorveglianza digitale del futuro.



Non c’è bisogno di trame dispotiche o inquietanti scenari futuri, quello che racconta Annichino è in atto già ora senza quasi che ce ne si accorga: il quotidiano Usa ammette candidamente di avere avuto accesso ai dati geolocalizzazione dello smartphone di Mons. Burrill dove era installata l’app per incontri LGBT “Grindr”. Quegli stessi dati, una volta analizzati hanno consentito di ricostruire i suoi spostamenti e da qui lo scandalo “sessuale” che ne sta conseguendo: come ben nota il giurista, l’affaire Burrill avviene negli stessi giorni in cui venivano resi pubblici i risultati dell’inchiesta “Pegasus” che ha visto 17 testate giornalistiche internazionali collaborare per svelare il ruolo globale dello spyware nella sorveglianza di uomini politici, giornalisti, oppositori e dirigenti d’azienda.



IL ‘GRANDE FRATELLO’ MONDIALE

La transizione digitale di gran parte delle economiche globali non fa che aumentare il rischio di monitoraggio e sorveglianza digitale su ampia scala: già diversi decenni fa numerosi controlli venivano effettuati su frange di società legate a minoranze religiose (quaccheri, mormoni, hamish, musulmani), considerate pericolose per la sicurezza del Paese. Ebbene, un “grande fratello” su ancor più larga scala è quello che si pensa possa essere già prossimo all’avvenire: «i Paesi asiatici sono un laboratorio fondamentale», scrive Annichino sul “Domani”, «come avviene in Cina con la minoranza musulmana figura oggetto delle attenzioni del regime mediante una sorveglianza stringente che utilizza a pieno regime le possibilità del digitale», con tecnologie importate però dall’Occidente. Negli USA avviene già così per diverse inchieste del recente passato, dimostrando come «l’incontro tra studi sulla sorveglianza e religione non è casuale e da attribuirsi agli sviluppi della transizione digitale», ribadisce il giurista. Un rapporto che verrà presentato in giornata al G20 Interfaith forum – dato in anteprima dal “Domani” – dimostra come «le tecnologie di sorveglianza basate su intelligenza artificiale vedono a essere utilizzate in maniera sproporzionata contro minoranze religiose, razziali ed etniche che sono già marginalizzate». Ci permettiamo di aggiungere all’ottima disamina di Annichino, come i casi Pegasus e Burrill dimostrano che il limite si è già ampiamente superato, andando a sconfinare dal fronte della “sicurezza nazionale” a quella dell’inchiesta-sputtanamento di chi viene ritenuto di volta in volta “attaccabile” e “ricattabile”. Utilizzare materiale inventato per controllare spie e terroristi contro vescovi, giornalisti e manager solo per tornaconti alla fine personali-strategici, rischia di prendere una china piuttosto pericolosa.

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