Difficile tema da sempre, nel nostro Paese, quello del rapporto tra magistratura e politica, reso al momento ancor più problematico perché interseca una delle crisi tra le più complesse che stiamo attraversando: quella dell’immigrazione e dei provvedimenti da prendere per disinnescare la mina che essa rappresenta sul piano umano prima ancora che sul piano politico.



La materia, poi, si presta ad essere terreno di scontro; presenta da un lato la necessità di dare tutela (giurisdizionale) ai diritti fondamentali delle persone, indipendentemente dalla loro provenienza, che si sostanziano nel garantire – quantomeno – una procedura costituzionalmente compatibile per i respingimenti e, dall’altro, l’urgenza di trovare rimedi legali per negare a chi varca illegalmente la nostra frontiera il diritto a permanere su nostro territorio. Un diritto – sia ben chiaro – che non sussiste in quanto tale se non in connessione con la tutela della libertà personale (dagli arresti) e col diritto al giusto processo, un processo che sia previsto dalla legge la quale deve in qualche modo normarlo, per garantire quel minimo di fairness (equità, ndr) che non si può negare a nessuno.



Ora, il fatto stesso che vi sia una legge che prevede le modalità del cosiddetto respingimento accelerato implica per necessità che vi sia un giudice che ne controlla la corretta applicazione e, se la legge è stata applicata correttamente, non vi sono motivi per dichiarare illegittimi i provvedimenti presi in ottemperanza della legge. Fin qui si può dire che ha ragione il ministro della Giustizia quando afferma che non vi è contrasto tra magistratura ed esecutivo; fin qui siamo nell’ambito del principio di legalità, quella rule of law che è tra i principi cardine dello Stato costituzionale liberal-democratico, attento alla tutela dei diritti contro i possibili abusi operati dal governo.



La questione si complica per due motivi. Il primo riguarda la dimensione sovranazionale del fenomeno. In mancanza di un’efficace politica europea, che consenta di mettere in atto un sistema comune di tutela, gli Stati – e in particolare il nostro – sono in evidente difficoltà e sono costretti ad adottare provvedimenti ritenuti fondamentali per superare la crisi. Le crisi non sono mai buone consigliere, se guardate sotto il profilo del rispetto del principio di legalità; esse vanno risolte in fretta, normalmente lasciando più spazio agli interventi dell’esecutivo rispetto ai tempi normali, in cui i diritti inviolabili dell’uomo possono essere tutelati in modo esteso ed efficace, anche sulla base del processo decisionale parlamentare. La presente crisi migratoria non fa eccezione a questa regole, che del resto il Covid aveva già messo sotto scacco.

Il secondo riguarda l’estensione del controllo che il giudice opera nei confronti dei provvedimenti presi sulla base della legge, quello che gli anglosassoni chiamano the scope of judicial review. Si può giudicare della bontà della legge, della fondatezza delle motivazioni addotte dai ricorrenti per contrastare le decisioni prese dalla Questura, o si deve restare nell’ambito di un controllo cosiddetto “esterno”, che verifica se le condizioni che sottostanno alle decisioni siano state rispettate e se il processo decisionale sia stato condotto secondo la legge; in altre parole, che non si sia in presenza di una decisione arbitraria? Quale che sia il tipo di controllo, normalmente è più che legittimo che la decisione di un giudice sia impugnata e che subisca un ulteriore processo.

C’è però una sorta di scorciatoia, che i giudici talvolta usano per evitare di essere sottoposti al controllo dei loro superiori, quello di ricorrere alla Corte Costituzionale, sostenendo che la legge stessa è incostituzionale. La Corte valuterà e deciderà, talvolta addivenendo alla tesi del giudice e dichiarando l’incostituzionalità della legge. Fin qui, tutto bene: è il modo che la Costituzione prevede per dare il massimo della tutela ai diritti delle persone e non ce n’è un altro. Non rientra tra i poteri dei giudici, come si legge nei commenti di stampa al caso di Catania, disapplicare la legge.

Non mi pare che, così facendo, i magistrati “facciano politica” (la politica è tutt’altra cosa); semplicemente agiscono ultra vires, oltre i loro poteri, tra i quali infatti non vi è il potere a cui il giudice ha fatto ricorso per sconfessare le decisioni dell’amministrazione. Certo, tutti sanno che in alcuni casi il potere dei giudici ordinari di “disapplicare” esiste; ed esiste non per espressa autorizzazione legislativa, ma per ricondurre a coerenza la legislazione italiana se essa contrasta con il diritto europeo, un vulnus all’art. 101 Cost. secondo cui i giudici sono sottomessi solo alla legge (ma ad essa sì che sono sottomessi), reso necessario per via della nostra appartenenza ad una realtà sovranazionale; e non è questo il caso, caso che è stato dunque risolto in modo erroneo, dando vita ad una decisione sbagliata. Tutto qui. Urlare allo scandalo non aiuta. Speriamo che a questo errore venga al più presto posto rimedio.

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