La fermezza dello Stato è una coperta calda. Parole che coprono la società tremante, proteggendola da paure profonde. Quando il corpo sociale è minacciato da un potere eversivo che ne vuole minare la sua stessa esistenza, lo Stato utilizza gli strumenti più violenti per tutelare se stesso, ricorrendo ad ogni forzatura nelle leggi per giustificare condotte ai limiti della Costituzione stessa, ovvero la sua legge fondante.
Quando furono varate le norme sul 41bis, il carcere durissimo, molte furono le voci critiche. Apparve del tutto inconcepibile uno Stato che segregava in modo definitivo un soggetto dalla società, privandolo di ogni contatto e di ogni ipotetico beneficio nel corso degli anni di detenzione. Prevalse una lettura pragmatica, ispirata alla necessità di eradicare il fenomeno mafioso, prevalse la reminiscenza della lotta al terrorismo dei decenni precedenti. Battaglia vinta solo grazie ad un pacchetto di norme di dubbia costituzionalità (su durata degli arresti, ad esempio, o sull’estensione della nozione di “banda armata”) che però offrirono alla Stato, accanto ai benefici per i “dissociati”, gli strumenti per sconfiggere quel fenomeno. O almeno per farlo inabissare sino agli omicidi di D’Antona e Biagi.
Oggi che quelle norme sul carcere duro incidono su poco più che mille cittadini, pochi tra questi legati a fenomeni di “terrorismo”, la questione resta aperta e si ripropone per il caso Cospito. Appare evidente che la legittima battaglia del detenuto e cittadino Cospito per vedere messo in discussione quel regime impone di comprendere bene il meccanismo.
In primo luogo la misura non è collettiva, ovvero non è un automatismo applicato a tutti i condannati per reati di quel tipo. La valutazione sulla sua effettiva esigenza è frutto di elaborati giudizi che arrivano sul tavolo del ministro della Giustizia, il quale assume la responsabilità politica del provvedimento.
Ciò crea un’eccezione nell’applicazione che fa intendere quanto sia fondamentale il giudizio su quel singolo detenuto rispetto alla critica, mossa da alcuni, sulla sua applicazione generalizzata. Se quelle fossero le normali condizioni di detenzione riservate a chiunque, scevre da istruttoria e giudizio, sarebbe un regime sistematicamente inaccettabile. Si applica però ai casi “eccezionali”, in cui eccezionale è il rischio concreto che la detenzione ordinaria sia inefficace a prevenire la commissione di altri delitti.
È evidente che il rapporto tra il giudizio che si esprime sulla pericolosità del soggetto e le sue condizioni oggettive di salute può incidere e portare ad assumere delle decisioni che, senza minare la fermezza dello Stato, lo rendano più ampiamente capace di svolgere il proprio compito di tutela rimanendo più ampiamente nei limiti della Costruzione, offrendo le cure necessarie pur rimanendo quel regime valido. Ma qui il caso è più politico. Da sempre il digiuno in carcere è la lotta estrema che si conduce con il corpo per proseguire le proprie battaglie e nessuno può imporre alla volontà di piegarsi.
In questo scontro, perciò, non si deve commettere l’errore di mettere in competizione due volontà, quella dello Stato e quella di Cospito. Si tratta di decidere “solo” se quel regime di detenzione è assolutamente necessario per evitare ben altri reati, e se tutti i soggetti istituzionali a ciò deputati abbiano reso i loro pareri, lasciando al ministro la scelta su come procedere.
Serve un giudizio di merito che possa portare, o meno, alla conferma del regime di carcere duro, giustificando il proprio agire con l’eccezionalità della minaccia. Lo Stato ha poche alternative se non comportarsi con correttezza e seguire le indicazioni sui casi individuali, evitando di rendere collettiva la risposta. Non serve, in sostanza, rendere Cospito un martire collettivo nel nome della battaglia contro tutti i terrorismi e le mafie; serve comprendere che non può essere una reazione “dello Stato” la fermezza in sé che prescinde dal merito della singola questione. Annunciare la propria posizione in modo “politico” esalta un tratto distintivo del tutto irrispettoso del carattere di eccezionalità di quel regime detentivo, che può e deve esistere nei limiti in cui è semplicemente efficace ad evitare altre sciagure e non per affiggere genericamente il nemico.
Serve una risposta concreta che sia efficiente terapia contro le storture che le associazioni eversive come mafia e terrorismo hanno. Una risposta dello Stato che faccia passare i tremori e le paure, non una coperta calda che illude senza curare.
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