L’Italia è il nostro Paese, nel bene e nel male, eppure per quanto riguarda il sistema Giustizia sembra che non si riesca più a tracciare un confine. Ci sembra che bene e male siano concetti astratti e lontani e che i diritti umani siano argomenti da trattare con la cartina geografica sotto gli occhi, perché non ci riguardano. Eppure abbiamo la Costituzione più bella del mondo, siamo stati la culla del diritto e un modello per altri sistemi legislativi internazionali.
Ricordo quando, oltre vent’anni fa, una nostra giovanissima amica, esperta di diritto internazionale e fra le menti della campagna per l’istituzione del Tribunale penale internazionale, vinse il concorso alle Nazioni Unite, e come sua prima missione fu inviata in Afghanistan insieme alle truppe della coalizione, con grande spavento della famiglia. Il suo compito era di stilare, per la prima volta nel Paese, l’ordinamento del sistema penitenziario da applicare nelle prigioni del nuovo governo afghano senza talebani. Il nostro ordinamento penitenziario veniva da una serie di riforme importanti. Riforme che ponevano come principio cardine l’art. 27 della nostra Costituzione, che auspica il recupero del condannato e il suo rientro nella società. La giovane studiosa, che conosceva alcuni condannati e il loro percorso di recupero, si mise al lavoro con fiducia e ottimismo e svolse sicuramente il suo compito al meglio, con uno sguardo pragmatico ma soprattutto umano. Non si capacitava che vi fossero madri detenute con i loro figli a poca distanza dagli altri detenuti.
Oggi in Italia si è tornati a parlare di sistema penitenziario con più notizie da parte degli organi di stampa per il caso di Alfredo Cospito, detenuto appartenente all’area politica anarchica, che deve scontare anni di carcere per reati di associazione sovversiva e banda armata. Il suo caso non sarebbe arrivato all’attenzione dei media se ad ottobre non avesse iniziato uno sciopero della fame che tuttora perdura, tanto che versa in condizioni gravi ed attualmente è stato trasferito in una struttura detentiva allestita all’interno dell’ospedale. Si tratta di strutture per i detenuti malati sia in attesa di giudizio, sia condannati per reati di criminalità organizzata, anche se sono in fin di vita e nella maggior parte dei casi sottoposti al 41 bis.
La sua decisione di infliggersi il digiuno a oltranza Cospito l’ha presa contro l’applicazione del 41 bis, al quale è sottoposto, ovvero il carcere duro previsto dell’ordinamento penitenziario nei casi di grave e reiterato pericolo per la collettività. Carcere duro in realtà è un eufemismo, perché il 41 bis a tutti gli effetti è un sistema per cui la stessa Corte europea dei diritti umani non ci vede di buon occhio. E non potrebbe essere diversamente, perché il concetto di punizione inferta fino a rasentare la tortura non appartiene alla nostra cultura, a quella del diritto internazionale e delle leggi che lo regolano.
Il tema del 41 bis, che sia collegato al “caso Cospito” o meno, però può essere affrontato da due punti di vista: quello umano/ideologico e quello “tecnico”. Salterò a piè pari l’aspetto umano o ideologico, ovvero se gli esseri umani che commettono errori/reati debbano essere trattati in un modo oppure in un altro. C’è un modo semplice per descrivere questa impostazione: per l’Antico Testamento andava bene l’occhio per occhio, per il Vangelo invece si dovrebbe perdonare se non addirittura porgere l’altra guancia. Ovviamente col passare dei secoli e il progresso della cultura (anche scientifica) si sono sviluppate molte posizioni intermedie, e io non parlerò di queste, perché sono praticamente infinite, e, da un estremo all’altro, tutte legittime.
Da un punto di vista “tecnico” il campo si biforca: come è stata scritta la legge, quali leggi erano in vigore prima, se la Costituzione è stata rispettata alla lettera oppure “in senso lato”, quali contestazioni sono state sollevate in punto di diritto, eccetera. Non è il mio campo, e soprattutto credo che serva a poco affrontare il tema da questo punto di vista: la legge è in vigore, ogni tanto la Corte Costituzionale suggerisce delle leggere modifiche, ma di fatto la legge c’è e un certo numero di cittadini sono sottoposti al suo rigore.
C’è un altro aspetto tecnico del quale però si può parlare: non la “genesi” della legge sul carcere duro, ma la sua destinazione, la sua eventuale efficacia. Trae giovamento una comunità dall’isolare un migliaio dei propri concittadini, tagliandoli fuori da tutto, oppure, col passare dei decenni (perché ormai sono decenni che il 41 bis è in vigore) si deve prendere atto che la quantità di droga che circola non è diminuita, che il fenomeno dell’usura non è diminuito, che la prostituzione esiste ancora, e via elencando? Un sistema penale non deve solo appagare il desiderio (legittimo, o, quantomeno, inevitabile) di punizione, ma, considerato il denaro speso, deve anche restituire alla collettività una società che sia meno violenta, meno cattiva.
Propongo questo discorso perché la “giustizia” è anche un “servizio”. È uno dei servizi per il quale il cittadino paga le tasse, e come tutti i servizi va valutato anche in termini di efficacia. Un carcere che sia solo “duro” rende davvero la società un posto più sicuro in cui vivere? Punizioni esemplari su chi è già stato preso e messo in condizioni di non nuocere, ci aiutano davvero ad avere un Paese migliore? Quale efficacia può mai esserci nel tenere persone detenute per decenni senza che si apra una riflessione su quanto sarebbe efficace un sistema di risorse destinate alla prevenzione, all’educazione e alla riparazione per assicurare una reale visibile sicurezza? Le comunità sanno fare sacrifici, ma devono anche sapere che questi daranno i loro frutti e che la terribilità non è acqua per la terra, ma il protrarsi di stagioni sempre più aride.
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