Sono trascorse solo 24 ore e la nostra curiosità è stata soddisfatta. Allo stesso tempo, però, è obbligatorio ammettere che tale soddisfazione non equivale a una completa risoluzione del problema da noi esposto. Ieri, a seguito del comunicato stampa del Consiglio dei Ministri relativo alla pubblicazione del Documento di economia e finanza, abbiamo focalizzato la nostra attenzione su una specifica voce che, in termini assoluti, ha destato qualche perplessità (e dubbio) sulla sua effettiva valenza.
Il tema affrontato è riconducibile al debito pubblico e specificatamente all’ammontare dei cosiddetti “interessi passivi” indicati nella tabella presente nel comunicato. Quest’ultimi, per l’anno in corso, vengono riportati in percentuale al Pil a quota 3,7 ovvero in netta diminuzione rispetto al 2022 dove, invece, superavano abbondantemente la soglia dei quattro punti attestandosi al 4,4. Riscontrata tale evidente differenza, la nostra perplessità era principalmente legata al motivo sottostante a questa dinamica poiché, contestualizzando il dato all’attuale status finanziario (tassi di interessi in rialzo e stock del debito in aumento), appariva plausibile una comprensibile curiosità.
Oggi, beneficiando della versione completa dell’intero Def 2023 le indicazioni sono immediatamente arrivate, ma, come anticipato, nonostante la loro tempestiva divulgazione il nostro precedente quesito risulta ancora privo di risposta o, se di risposta si tratta, l’effettiva realizzazione troverebbe difficoltà nei fatti.
Partiamo dalla ricostruzione dei numeri da parte del Governo che, a pagina 58 del Def, specifica l’entità dell’anno 2022 ovvero l’ammontare pari al 4,4: «Nel 2022, l’aumento della spesa per interessi passivi rispetto al 2021 è stato pari a circa 19,5 miliardi, ovvero circa 6 miliardi in più rispetto alla previsione programmatica del Dpb. L’incremento è da ricondurre in gran parte all’effetto della rivalutazione, ricompresa contabilmente nella spesa per interessi dei titoli indicizzati all’inflazione, che ha comportato un maggior onere relativo rispetto alle recenti previsioni dello scorso autunno. Grazie all’elevata durata media del debito, solo una parte trascurabile del maggiore onere per interessi del 2022 è invece da ricondursi all’incremento del costo del debito sulle nuove emissioni a reddito fisso che risente del rialzo dei tassi di riferimento della Banca centrale europea. Questi interventi hanno dato luogo a un notevole cambiamento della curva dei rendimenti dei titoli di Stato che si è posizionata su livelli decisamente più elevati, con un sensibile spostamento verso l’alto soprattutto della componente a breve, maggiormente influenzata dai tassi di policy della Bce. Per tali ragioni, il rapporto tra interessi passivi e Pil è salito al 4,4 per cento a fronte del 4,1 per cento atteso lo scorso novembre e del 3,5 per cento fissato nel Programma di stabilità dello scorso aprile».
Da tale motivazione emerge – chiaramente – il principale fattore impattante sull’intera componente degli “interessi passivi” ovvero: l’andamento complessivo dei titoli indicizzati all’inflazione. Proseguendo nella consultazione del Def, la risposta alla nostra palesata curiosità, arriva con la lettura di pagina 64: «Nel 2023 la spesa per interessi è prevista in riduzione rispetto al 2022, soprattutto per effetto di un calo della rivalutazione dei titoli indicizzati all’inflazione, coerentemente con l’ipotesi di una progressiva riduzione del tasso di inflazione a livello nazionale ed europeo. Negli anni 2024-2026 seguiranno, invece, progressivi aumenti in termini nominali degli interessi da ricondursi a diversi fattori». Inoltre, continuando, si apprende come «l’inflazione, sebbene in discesa, continuerà a sostenere la componente degli interessi passivi legata ai titoli indicizzati» per poi giungere ai definitivi dati: «L’incidenza degli interessi passivi sul Pil scenderebbe quindi al 3,7 per cento del Pil nel 2023, tornando a salire al 4,1 per cento del Pil nel 2024, al 4,2 per cento nel 2025 e al 4,5 per cento nel 2026».
Sintetizzando quanto riportato si può giungere a un’unica motivazione: la minor spesa per interessi passivi è prevalentemente riconducibile a «un calo della rivalutazione dei titoli indicizzati all’inflazione» e all’inflazione che «sebbene in discesa, continuerà a sostenere la componente degli interessi passivi legata ai titoli indicizzati». Se questi elementi identificano la teoria, parallelamente, il tutto si può tradurre nella più concreta pratica affermando, di fatto, che nel Def 2023 viene indicata senza mezzi termini o possibili fraintendimenti la prossima defezione in capo ai prezzi dei titoli indicizzati all’inflazione (rif. «calo della rivalutazione») e, inoltre, la verosimile futura riduzione della quota cedolare (rif. «componente degli interessi passivi legata ai titoli indicizzati») prevista dagli stessi strumenti finanziari emessi.
Preso atto di tale scenario viene spontaneo chiedersi quali siano le prospettive sulla temuta (prima) e dell’ormai arginata (ora) inflazione. La risposta è immediata e reperibile fin in Premessa all’intero Documento di economia e finanza 2023: «Il tasso di inflazione secondo l’indice nazionale Nic ha toccato un massimo dell’11,8 per cento a ottobre e novembre ed è poi sceso fino al 7,7 per cento a marzo. Malgrado la crescita dei prezzi alimentari resti molto elevata (13,2 per cento), il ribasso dei prezzi energetici porta a prevedere un ulteriore calo dell’inflazione nel prosieguo dell’anno. L’inflazione di fondo (al netto dell’energia e degli alimentari freschi) ha continuato a salire, fino al 6,4 per cento a marzo, ma è prevista anch’essa decelerare nei prossimi mesi. Relativamente al deflatore dei consumi, la previsione del presente Documento è che l’inflazione scenda da una media del 7,4 per cento nel 2022, al 5,7 per cento quest’anno e quindi al 2,7 per cento nel 2024 e all’2,0 per cento nel biennio 2025-2026».
Sulla base di queste risultanze risulta oggettivo ricondurre al solo e intero basket dei titoli di Stato indicizzati all’inflazione il motivo della minor spesa per interessi passivi per quest’anno, ma, nonostante questa semplicistica individuazione, guardando invece ai numeri, ad altri numeri, tale spiegazione appare (decisamente) troppo forzata.
Consultando l’attuale composizione del debito pubblico italiano (rif. Titoli di Stato in circolazione al 31 marzo 2023), la quota degli strumenti finanziari indicizzati all’inflazione italiana ovvero i cosiddetti Btp Italia ammonta a un residuale 4,53%. Se a essi, forzatamente, aggiungessimo una ulteriore tipologia (quella dei Btp €i) il saldo complessivo arriverebbe “solamente” a oltrepassare la soglia dei dodici punti percentuali (12,78%) sull’intero stock in circolazione che, sostanzialmente, individua certamente una quota significativa, ma, è pur vero, neppure così destabilizzante in sede di interessi passivi.
Lasciamo a voi il compito di trovare altre diverse chiave interpretative a questa complessa tematica e, nel frattempo, poniamo l’attenzione all’imminente “dato pivot” di prossima diffusione (lunedì 17 aprile) concernente il valore dell’indice dei prezzi al consumo per le rivalutazioni monetarie ossia i prezzi al consumo FOI al netto dei tabacchi che, nella fattispecie dei finora “accusati” titoli di Stato, individua il loro specifico e unico parametro per l’indicizzazione delle future cedole.
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