Europa all’insegna del ribasso. Un ribasso utile, tanto atteso e soprattutto favorevole all’intero Vecchio continente. L’Ufficio statistico europeo (Eurostat) ieri ha diffuso l’aggiornamento sulla inflazione dei singoli Paesi appartenenti all’Eurozona e all’Unione europea.

Il tema, almeno da parte nostra, è stato approfondito di recente e in varie occasioni con l’intento di non tralasciare alcun elemento utile al fine di poter delineare quanto più possibile l’attuale stato di fatto in materia di carovita. Anche Eurostat, infatti, ha evidenziato la netta positività finora raggiunta dai vari Paesi con diretta influenza a beneficio dell’economia europea: +6,9% il dato su base tendenziale rilevato a marzo per l’Eurozona che, rispetto al precedente +8,5%, vede una significativa flessione. Anche per il più esteso territorio concernente l’Unione europea il riscontro mensile è positivo e soddisfacente: +8,3% rispetto alla sfiorata doppia cifra (+9,9%) dello scorso febbraio.



Focalizzando l’attenzione alle variazioni percentuali di ciascun Paese, come ben riportata dall’agenzia di stampa Radiocor, emerge come, «rispetto a febbraio, l’inflazione annua è diminuita in venticinque Stati membri ed è aumentata in due». Una dinamica così marcata potrebbe essere assimilabile a un vero e proprio record. Nel dettaglio, inoltre, riteniamo opportuno sottolineare la portata delle diminuzioni per alcuni Paesi a noi più vicini che, nel confronto percentuale mese su mese, presentano importanti valori: la Spagna archivia un mastodontico saldo negativo a -2,9%, a seguire la Germania in flessione dell’1,5%, la Grecia a -1,1% e la Francia con un residuale -0,6%. Il nostro Paese, la nostra Italia, anche questa volta si distingue per il proprio vantaggio che, grazie a una riduzione dell’inflazione mensile paria -1,7%, si aggiudica il secondo posto in questa nostra ristretta classifica tra Paesi vicini, talvolta amici, ma non sempre cooperativi.



Anche questo dato sui prezzi al consumo a livello europeo può essere archiviato e classificato come positivo soprattutto poiché contestualizzato a un ampio paniere riconducibile ai molti Paesi interessati.

A margine della diffusione di quanto finora illustrato, Istat ha reso pubblico il testo dell’audizione da parte del Direttore della Direzione Centrale per la contabilità nazionale Giovanni Savio. L’intervento, tenuto alle Commissioni congiunte di Camera e Senato, trattava sull'”Attività conoscitiva preliminare all’esame del Documento di economia e finanza 2023″. Consultando il documento, la lettura delle sue prime righe (rif. Introduzione) ridimensiona in modo sostanziale la nostra iniziale e finora esposta positività. «L’attuale congiuntura economica risulta contraddistinta da segnali di incertezza, legati all’evoluzione degli scenari di guerra e al contesto geopolitico, al rischio di nuove spinte inflattive e in generale di una maggiore persistenza dell’inflazione, all’emergere di crisi localizzate nel sistema bancario».



Questa l’iniziale considerazione dell’illustre rappresentate di Istat che, nelle pagine seguenti, ha comunque voluto sottolineare i già nostri riportati elementi positivi sull’inflazione: «A marzo, la variazione tendenziale dell’indice per l’intera collettività (NIC) ha segnato una nuova decelerazione (+7,6%, da +9,1% di febbraio)» e inoltre «l’inflazione di fondo – al netto degli energetici e degli alimentari freschi – si stabilizza a marzo al +6,3%, mostrando i primi segnali di esaurimento della fase di accelerazione dei prezzi, dopo una fase di prolungata crescita. Anche i prezzi del “carrello della spesa” rallentano su base tendenziale, scendendo a +12,6%».

Purtroppo, però, prescindendo da questi vantaggi, viene doverosamente ripreso un gap ancora presente e molto rilevante: «Considerando che l’inflazione misurata dall’IPCA per lo stesso anno è stata del +8,7%, nel 2022 si è dunque osservata una marcata riduzione in termini reali delle retribuzioni. Il divario tra la dinamica dei prezzi – misurata dall’IPCA – e quella delle retribuzioni contrattuali è salito a 7,6 punti percentuali, raggiungendo il valore più elevato dal 2001, primo anno di diffusione dell’indicatore dei prezzi armonizzato a livello europeo (in passato il valore massimo era stato raggiunto nel 2012 ed era pari a 1,8 punti percentuali)». Decisamente un salto nel passato. Poco incoraggiante.

Sempre continuando nella consultazione del documento, e arrivando alle sue ultime pagine, “scoviamo” un inciso che si riallaccia a una nostra recente insoddisfazione di fondo amplificata con il trascorre di queste ultime giornate: al capitolo “3. Gli obiettivi di finanza pubblica”, sul delicato tema in merito alle previsioni del triennio 2023-2026, viene data luce al nostro personalissimo cruccio sui cosiddetti interessi passivi: «Nel 2023 la spesa per interessi è prevista in calo al 3,7% del Pil, ma in aumento negli anni a seguire (sino al 4,5% del Pil nel 2026), anche come effetto del rialzo dei tassi di riferimento della Banca centrale europea».

Già sconfortati per non aver colmato il bisogno del nostro umile sapere, oggi, inoltre, apprendiamo da Istat che l’effetto del rialzo dei tassi di interesse avrà implicazioni solamente sul prossimo incremento della spesa per i prossimi anni e non (anche) su quello corrente. Un vero mistero.

vederci bene, però, questa “ingiustificata” differenza rappresenta oggettivamente “un balzello” a favore di una spesa pubblica inferiore. Vogliamo essere franchi. In questa attesa di risposte e lumi le nostre notti non sono trascorse insonni, ma, ora, possiamo francamente ammetterlo: nel 2023, questa minor spesa riportata, equivale a un tesoretto. Un risparmio contabile almeno sulla carta. La realtà dei fatti arriverà – solo – nei prossimi mesi. Nel frattempo osserviamo fiduciosi. Fiduciosi ma insoddisfatti. Salvo smentita dell’ultima ora.

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